La verità l’ha scritta Alessandro Cattelan in un tweet: «#Soul è un film per quarantenni in crisi, non per bambini». In effetti, è la prima volta che la Pixar pare guardare deliberatamente a un pubblico adulto relegando i più piccoli in una posizione subalterna, defilata, non conquistabili nell’immediato.

La storia

Disponibile sulla piattaforma Disney+ dal giorno di Natale, dopo aver saltato forzatamente il passaggio in sala, Soul affronta la vicenda di Joe Gardner, afro-americano di mezza età, insegnante di musica frustrato dal suo impiego che ha finalmente l’occasione di esibirsi con il Dorothea Williams Quartet, sogno inseguito per tutta la vita. Il giorno in cui viene ingaggiato per il concerto, in preda all’entusiasmo precipita in un tombino e si ritrova catapultato nell’aldilà, precisamente in un «altro mondo» (The Great Beyond in originale).

Realizzato il guaio, cerca di fuggire e riesce a raggiungere l’«ante-mondo» (The Great Before), un luogo che ha cambiato nome in «Io-Seminario» («scelta di marketing», gli spiegano), dove le anime si preparano a nascere, formando il proprio carattere e cercando, grazie all’aiuto dei “mentori” (personalità eccelse nel proprio campo) la giusta “scintilla” che possa far scattare in loro la voglia e il motivo per cui vivere. Uno scenario magico e lucente in cui le anime, ciascuna identificata con un numero, sono piccole particelle che pascolano spensierate, prima di essere catalogate e incasellate, senza reali pericoli perché «un’anima qui non può essere schiacciata, per quello c’è la vita sulla Terra».

Qui Joe riesce ad aggirare i controlli dei guardiani, personaggi che si fanno chiamare tutti Jerry, resi graficamente con dei tratti essenziali e minimali, che si muovono come la linea di Cavandoli e conteggiano le anime in arrivo. Scambiato erroneamente per uno psicanalista scandinavo, Joe viene assegnato come mentore a 22, un’anima inquieta che non ne vuole sapere di vivere e scendere sulla Terra (non esplicitato, ma evidentemente non casuale il riferimento al paradosso del Comma-22). In tanti hanno provato a formare 22, ma tutti hanno rinunciato, da Madre Teresa di Calcutta a Abraham Lincoln, da Archimede a Carl Gustav Jung (nomi che ai piccoli diranno poco e, di nuovo, vanno a saccheggiare i riferimenti dei più adulti).

I due finiscono per legarsi, ma per errore 22 finisce nel corpo di Joe, mentre l’anima del musicista in quella di un gatto che si trova al suo capezzale per una sorta di pet therapy. Inizia così l’avventura dei due protagonisti per riprendersi quanto perduto o semplicemente scoprire cosa nasconde la vita terrena, in un crescendo di gag, inciampi, cadute e risalite sullo sfondo di una New York vivida e incantevole, resa realisticamente nei dettagli magistrali dei sobborghi black prima ancora che nei suoi simboli iconici.

L’analisi del dubbio

Come si può intuire, l’impianto è piuttosto complicato. Cos’è l’anima? Dove andiamo una volta lasciata questa vita? Perché si nasce con un’impronta piuttosto che un’altra? Qual è il senso, lo scopo di un’esistenza? E, soprattutto, è davvero necessario averne uno? Domande complesse, riflessioni filosofiche che i creativi della Pixar, sotto la direzione di Pete Docter (allievo del maestro John Lasseter, travolto dallo scandalo #metoo), provano a maneggiare con garbo, in un equilibrio costante di aspettative che alla fine sembra non spingere mai fino in fondo l’acceleratore del dubbio.

Del resto, la Pixar ci ha già abituato da tempo a queste incursioni nei grandi temi, aggiornando il linguaggio della fiaba in una direzione che va oltre l’orizzonte della “morale” con il gusto di toccare quelle corde più nascoste che ci tormentano, rimescolando le priorità e indirizzando a rimettere le cose nel loro giusto ordine. Era successo con Up e Inside out (entrambi dello stesso Docter), con quest’ultimo che utilizzava le stesse soluzioni grafiche di Soul per disegnare e visualizzare il complesso groviglio di emozioni che si alternano e combattono nella nostra psiche e nel nostro corpo.

Ed era successo anche con i lungometraggi più tradizionali come Cars 3 (un trattato magistrale sulla solidarietà tra generazioni e sulla tecnologia che non può soppiantare l’umano) o la saga di Toy Story. O come con Coco, la pellicola del 2017 che ha catturato con un sapiente mix di riflessioni sull’aldilà (peraltro legate al tema spinoso dell’elaborazione del lutto e del ricordo dei defunti che vive nella memoria terrena dei congiunti) con il tipico “viaggio dell’eroe” di un bambino con il fuoco sacro della musica, ostacolato dai parenti e disposto a riprendersi la sua passione in un percorso puntellato di brani musicali destinati a popolare l’immaginario di figli e genitori.

Ecco, forse a Soul manca l’afflato magnetico di Coco per virare invece verso una materia da adulti in cerca di stabilità emotiva; qui la passione per la musica non è il motore della storia, ma paradossalmente il suo freno, con Joe Gardner che poco alla volta si rende conto di quanto la sua scintilla per la musica jazz (nata grazie al padre che da ragazzo lo aveva portato in un locale) abbia finito per oscurare il senso della vita nel suo complesso, compreso l’ascolto e il confronto con le esistenze degli altri.

Quando si reca dall’amico Dez per un taglio di capelli, l’anima di 22 che è dentro di lui evita la proverbiale monotematicità della sua unica ossessione musicale e costringe Gardner – la cui anima è nel gatto – ad ascoltare la confessione del barbiere, scoprendo così che è stato costretto a ripiegare su quel mestiere pur sognando di fare il veterinario. In quell’istante il protagonista capisce che si può essere felici semplicemente vivendo, assaporando la quotidianità e lasciandosene sedurre e stupire. E lo capisce solo ascoltando, rinunciando alla centralità di quelle ossessioni che generano “il distacco dalla vita” e imparando a separare la scintilla dallo scopo.

E quando, dopo aver coronato il sogno di suonare con la grande Dorothea Williams, si rende conto che in fondo quel momento se lo aspettava diverso, la musicista gli risponde con la celebre metafora del pesce che non sa di essere nell’oceano in cui nuota, citazione che da Albert Einstein a Marshall McLuhan a David Foster Wallace è stata ampiamente usata e abusata (ne ha attinto perfino il premier Giuseppe Conte in una delle tante conferenze stampa!).

La rappresentazione dell’astratto

Questioni “junghiane” di non semplice soluzione che la Pixar prova a risolvere attingendo al bagaglio della grafica e del design, illustrando come meglio non si potrebbe ciò che è per definizione astratto e immateriale. Una menzione specifica meritano i “Mistici Senza Frontiere”, fricchettoni capitanati da Spartivento che rappresentano il punto di congiunzione tra il mondo quotidiano e l’aldilà. Come? Sono soggetti che nella loro attività terrena (che sia suonare i bonghi o far roteare un cartello con impressi i prezzi di un negozio) raggiungono un tale grado di trance da separarsi momentaneamente dalla vita reale; come moderni Caronte, si muovono su un veliero psichedelico sulle note di Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan e, in una sorta di limbo, aiutano le anime a liberarsi delle proprie ossessioni e riprendere in mano l’essenza radicale e profonda della propria esistenza.

Ciò che discosta Soul dalle precedenti opere Pixar è anche la scelta di puntare su un personaggio anonimo, senza apparenti virtù salvifiche e, a pensarci bene, difficilmente spendibile in termini di merchandising e costruzione del brand, operazioni mai sottovalutate in casa Disney; per la prima volta il protagonista è un afro-americano ed è impossibile non scorgere i riflessi delle recenti politiche culturali adottate dal sistema Hollywood. Sui meccanismi ideologici dei contenuti Disney si è discusso parecchio nel corso dei decenni; senza risalire alla critica di Ariel Dorfman e Armand Mattelart che in Come leggere Paperino dei primi anni Settanta, in ben altri contesti e contrapposizioni, puntava apertamente a sconfessare il modello culturale e politico dell’universo The Walt Disney, qui si palesa l’adesione a un politically correct dominante e sottile, più di maniera che altro.

Restano, tuttavia, la potenza delle immagini e la centralità assoluta e senza tempo di domande antiche e misteri scolpiti nella vita dell’umanità («non ricordare il trauma della nascita è uno dei grandi doni dell’universo») a fare di Soul un’opera moderna e spiazzante. Il richiamo della vita è più forte di qualsiasi trauma e insicurezza; nel volo delle anime verso la Terra pare di rivedere l’angelo di Wim Wenders de Il cielo sopra Berlino e la sua meravigliosa scoperta: la vita non va osservata, ma vissuta.

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