Alla fine degli anni Venti del secolo scorso la casa editrice Arnoldo Mondadori ebbe l’intuizione di colorare di giallo le copertine di una sua collana di racconti a trama criminale. Da allora dire giallo in Italia significa: enigma da svelare. Nel resto del mondo libro giallo non vuol dire niente: in Francia si parla di polar, in Germania di kriminalroman, in Spagna di novela negra, mentre gli anglosassoni hanno la crime story.

Le regole

Ma per tutti, e in tutto il mondo, la prima regola di questi racconti è la stessa: ci deve essere un morto ammazzato. La seconda regola è che bisogna scoprire chi lo ha ucciso. Ma attenzione, la terza regola, squisitamente aritmetica, recita: se il morto è uno solo, il giallo non c’è. Un morto non basta. I cadaveri devono essere almeno due. E così, al primo cadavere, se ne devono aggiungere altri in corso d’opera.

Vero è che i morti ammazzati vanno comunque distribuiti con parsimonia e buon senso; parlare di parsimonia e buonsenso nella stesura di una trama criminale non è un ossimoro, bensì una strategia narrativa. Attenzione a non strafare: regolamenti di conti plurimi e stragi non sono mai funzionali al nostro tipo di narrazione poiché la quarta regola ci dice che il libro giallo non tratta la criminalità organizzata: il delitto descritto deve sempre ricordare al lettore che lui pure, se correttamente stimolato, può diventare un assassino.

Il giallista di scuola classica che ha letto e amato Agatha Christie, non è interessato ai professionisti del crimine, ma alle motivazioni istintive del male, alle ragioni dettate dalle emozioni negative più diffuse e socialmente trasversali quali: paura, invidia, avidità, gelosia, lussuria. Il giallista di scuola classica racconta le emozioni che possono scuotere tanto l’animo di Stefania – massaggiatrice esperta in linfodrenaggi, che il fidanzato e la migliore amica hanno fatto cornuta. Come quelle che possono travolgere l’animo del geometra Antonio – impossibilitato  a costruire il balcone verandato da un crudele amministratore di condominio – o, ancora, le emozioni che si impadroniscono di un piccolo industriale, con il vizio del gioco, cui la moglie ha sequestrato le carte di credito e negato l’accesso al conto bancario cointestato. Per questa stessa ragione, che chiameremo la quotidianità del crimine, arriviamo a un’altra buona pratica della scrittura giallistica, ovvero la quinta regola: l’investigazione è più avvincente se basata su intuizioni dovute al buon senso e a improvvise illuminazioni che possiamo avere tutti, compreso il lettore.

Il giallo senza omicidio

Sovvertire le regole del giallo è una sfida ardua, ma non impossibile. Il difficile è sovvertirle tutte, ma volendo fare una scelta proviamo a rovesciare la più importante, ovvero, il morto ammazzato. Immaginiamo di tessere una trama dove ciò che manca è proprio il cadavere.

In questo racconto abbiamo una scena del crimine fornita di tutti gli optional: tracce di sangue, dna e impronte digitali e sì, volendo esagerare, un morto, ma un morto minore, per esempio: un gatto. In questo racconto il gatto si chiama Gatto. Gatto divide un elegante appartamento in una zona residenziale di una non meglio specificata città del nord Italia, con Clotilde. Lei è vedova, ricchissima, non ha figli, ma è zia perplessa di Marzia, giovane influenser (scritto così) molto bella e molto bisognosa di rassicurazioni su quanto sia bella, Marzia ha frequentazioni un poco losche e una propensione alle droghe pesanti. Clotilde possiede un ingente patrimonio ereditato dal marito, Luigi, piccolo industriale agro-alimentare, con il vizio del gioco, cui lei – prima che si disintossicasse grazie a un gruppo di auto aiuto – aveva sequestrato le carte di credito e negato l’accesso al conto bancario cointestato. Poi Luigi è morto, infarto. Pace all’anima sua. Clotilde si è ritirata a vita privata nel grande appartamento con Gatto.

Clotilde permette alla nipote Marzia di vivere senza pagare l’affitto in un altro appartamento di sua proprietà, molto charmant, con terrazza. Ma la nipote non si dimostra particolarmente grata, e la va a trovare raramente. Non che a Clotilde dispiaccia, poiché grazie agli amici del burraco, che vede tutti i mercoledì sera, lei uno straccio di vita sociale ce l’ha. Inoltre, grazie a Gatto, e a una coppia di peruviani tuttofare, molto premurosi e devoti, può tranquillamente affermare di avere anche una vita affettiva.

Marzia possiede le chiavi dell’appartamento di Clotilde e, ogni tanto, senza annunciarsi, entra. Di solito è per chiederle in prestito uno dei suoi tailleur Chanel, o una delle sue borse Hermès, o una delle sue pellicce Fendi (che sdrammatizza indossandole con i jeans). A volte chiede soldi. I soldi Clotilde glieli dà, il resto glielo presta. Il problema è che Marzia non restituisce.

Un giorno Clotilde, rientrando in casa da una passeggiata, intercetta casualmente una telefonata della ragazza, dove la nipote afferma di non vedere l’ora di vederla morta per ereditare il malloppo. Clotilde non è una che ha fatto la vita che ha fatto, senza figli e con un marito giocatore che l’ha costretta a umiliazioni come accompagnarlo ai gruppi di auto aiuto, per poi vedere tutto vanificato alla seconda generazione. Inoltre, viste le frequentazioni della nipote, Clotilde ha paura. Così, senza troppe spiegazioni, dice alla nipote che la lascerà vivere nell’appartamento molto charmant con terrazza, ma preferisce non vederla più.

La scena del crimine

E arriviamo alla scena del crimine. Sono passati alcuni mesi, la coppia peruviana rientra dal fine settimana libero e trova l’appartamento deserto, fatto salvo il povero Gatto, appeso per il collo al lampadario. Di Clotilde non c’è traccia, la cassaforte aperta e vuota. La polizia indaga e interroga Marzia che sostiene di non vedere la zia da mesi. E, siccome secondo il principio di interscambio di Edmond Locard – lo Sherlock Holmes di Francia, criminologo autore di ben sette volumi intitolati: Traité de Criminalistique, dalla scena del crimine l’assassino qualcosa lascia e qualcosa porta via, la scientifica scopre: tracce di sangue (Clotilde), dna (Clotilde, peruviani, Gatto, Marzia), impronte digitali su di un bicchiere che è rotolato sotto un divano (Marzia).

Una lettera anonima accusa Marzia di aver ucciso Clotilde, Gatto, e rubato i gioielli dalla cassaforte di cui conosceva la combinazione. Dopo apposito decreto motivato di perquisizione, gli investigatori trovano nascosti i gioielli in un vaso della terrazza di Marzia e lei viene ufficialmente accusata. Ma ecco che un’investigatrice particolarmente intuitiva, dopo aver controllato i profili social della nostra influenser si accorge che la ragazza nutre una passione per i piccoli animali, passione che male si accorda all’omicidio di Gatto.

L’investigatrice ordina l’autopsia dell’animale e così arriviamo al colpo di scena – quello che gli anglosassoni chiamano plot twist – l’esame rivela come il povero micio fosse già malato terminale e la sua morte sia da attribuirsi a una iniezione letale. Clotilde diventa a questo punto sospetta, potrebbe aver messo fine ai giorni tormentati del suo Gatto e utilizzato il cadavere per allestire una scena di odio morboso che gettasse i sospetti su Marzia, perseguendo il doppio scopo di vendicarsi e scomparire per proteggersi dalle mire assassine della nipote e i suoi pericolosi sodali.

Gli investigatori si muovono in tal senso e, follow the money, si scopre come l’appartamento molto elegante e quello molto charmant siano stati donati a una associazione no profit che lotta contro la ludopatia e i conti bancari di Clotilde prosciugati. Ma esistono movimenti pregressi verso alcuni conti svizzeri. Da qui i passi sono semplici, si indaga in Svizzera e Clotilde viene intercettata sotto falsa identità in una villa sul lago di Lugano. Fine.

Ecco servito un giallo che, a parte l’atto misericordioso di mettere fine alla vita del povero Gatto malato, non ha morti ammazzati e abbiamo obbedito alla sesta legge del giallo: descrivere la normalità che si trasforma in orrore.

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