Bebelplatz, di Fabio Stassi (Sellerio), è uno di quei libri che cerca luce nel buio: lo fa con la speranza che «da qualche parte nel mondo una mente stia ideando parole da tracciare con la mano e da decifrare con gli occhi in mezzo al fumo e alle ceneri», come scrive Alberto Manguel nella prefazione. Lo fa cercando una luce tra le ceneri di un rogo violento, tra i resti della storia e della memoria del rogo dei libri a opera del nazismo nella piazza che porta lo stesso nome del libro. Il primo rogo a cui ne seguirono altri in altre piazze e città della Germania.

Stassi scrive con l’inquietudine e l’impotenza di questi anni («chiunque, dentro di sé, sapeva che il mondo, dalla pandemia in poi, era di nuovo uscito dai cardini»). Bücherverbrennungen è parola spaventosa, come il mondo che ordina e imbastisce («L’uomo tedesco del futuro non sarà più un uomo fatto di libri, ma un uomo di carattere»). Lo scrittore ripartendo dopo la sosta forzata e globale della pandemia, si rende conto – a un certo punto – di essersi imbattuto in un’altra storia («Ma sul binario di fronte centinaia di donne e di bambini in fuga dal confine orientale ucraino stavano scendendo da un altro convoglio e riempiendo la banchina di bandiere. Una cosa del genere l’avevo letta soltanto sui libri di storia, e presto ebbi pudore anche di guardare»).

Quella storia è quella che abbiamo accanto da due anni e che poi è esplosa ancor più disumana a Gaza: è la storia della cecità della guerra che piomba addosso a persone innocenti, violando la già penosa etica che stabilisce cosa sia lecito e cosa illecito in un conflitto. Così, umanamente si interroga: storico scrupoloso, narratore paziente («Ne venne fuori uno sgangherato discorso sulla paura, che comprendeva sia quella che avevo di parlare in pubblico, sia la paura appena ricomparsa in Europa di un nuovo conflitto militare»), perché quello che ha ricominciato ad accaderci intorno ha cambiato il senso dei nostri libri, del nostro scrivere, delle nostre parole («altri nomi andavano aggiunti a questa triste anagrafe delle città colpite – Kharkiv, Mariupol’, Kherson»): Fabio Stassi sa, mentre ricostruisce e compone le sue antologie dissidenti, che bisogna «tornare a fare i conti con l’angelo della storia, con il suo sguardo sgomento sull’ininterrotta catastrofe della vicenda umana».

Parole come sopravvivenza

Quelle città di cui parla le abbiamo lette nei reportage accorati di chi racconta i mondi usciti fuori dai cardini per mestiere: lo fa Nello Scavo, grattando in profondità tra le tante storie e persone della guerra in Ucraina col suo Il salvatore di bambini (Feltrinelli).

I bambini non sono bottino di guerra: è una di quelle frasi che fa paura solo a scriverla, è una di quelle frasi che nel mondo in cui viviamo – tra i conflitti raccontati, quelli silenti, quelli che non trovano abbastanza voce – bisogna urlare. È una di quelle frasi a cui bisogna dare una sostanza fatta di indagine, di parole e carta («Da giorni raccoglievo voci difficili da verificare. Perché in guerra non c’è niente che sia semplice da accertare»). Scavo ci riesce («Non mi interessava la cronaca mordi e fuggi, volevo un’inchiesta giornalistica che mi aiutasse a decifrare e spiegarsi il dipanarsi della guerra. Uno di quei servizi per i quali occorrono settimane e mesi per arrivare in fondo, ma che una volta messi in pagina illuminano l’abisso della guerra e mettono a nudo l’orribile essenza di chi ordina le manovre sul campo»). Ci riesce perché si muove e va dov’è difficile – a voler usare un eufemismo – andare («all’inizio della guerra nessuno sapeva quale fosse la situazione a Kherson. Per noi era impossibile arrivarci. Io volevo andarci a ogni costo, a patto di avere una chance di tornare vivo. Ma la guerra decideva per noi, e tra noi e Kherson c’erano i russi»).

Da esperto inviato, si è ormai ben cucito addosso le regole del contesto in assoluto più sregolato che il genere umano abbia partorito, la guerra: lo fa sapendo che esiste, tra le tante, «la regola dei due muri e due uscite» e che a volte, purtroppo, non c’è uscita, ma che bisogna scovare la verità specialmente quando è nascosta bene («Volodymyr aveva qualcuno da nascondere, anche ai giornalisti»). La storia che racconta è quella di Volodymyr Sahaidak, noto ormai come lo Schindler ucraino: la guerra crea antonomasie; la guerra neologizza («i rashist, neologismo usato dagli ucraini per saldare le parole russo, fascista e razzitsta»), perché anche la guerra è un fatto di lingua, anche se, come la violenza, è mancanza di vocabolario.

Volodymyr, però, è uno di quegli esseri umani antidoto alla guerra, uno che sa compiere i miracoli nell’ordinarietà delle giornate violate dal conflitto («A dirla tutta, cominciai a temere che quelle raccontate a Kherson fossero leggende e che non ci fosse nessun salvatore di bambini in un posto dove Mosca controllava ogni strada e che cercando ancora avrei trovato solo qualche altro Sasha, perché è impossibile nascondere un intero istituto e almeno cinquanta bambini agli uomini mandati da Vladimir Putin»): le sue intuizioni vengono salvate proprio dalla lingua, dalle parole che possono essere sopravvivenza («Scriviamo tutto in ucraino, dissi ai miei colleghi. Mi misi a tradurre tutti i documenti, e a scrivere quelli nuovi nella nostra lingua») e a volte, se si è fortunati, la violenza oltre a mancare di vocabolari, manca di interpreti e traduttori («quelle teste di rapa manderanno gente che non conosce una parola di ucraino»).

Sahaidak è un uomo buono, di romantica astuzia («ma come si fa a nascondere cinquantadue minorenni e farli passare oltre la cortina del nemico senza che nessuno se ne accorga?»), di grande coraggio («Volodymyr non aveva bisogno di sentire le urla dei prigionieri per sapere cosa gli sarebbe capitato se la controffensiva ucraina non avesse sconfitto gli occupanti. Tempo sei mesi e nella migliore delle previsioni anche lui avrebbe ricevuto la “telefonata di Putin”, il nome dato dagli aguzzini alla tortura con scosse elettriche per mezzo di un telefono militare da campo») e Scavo fa della sua esistenza una storia, un’importante testimonianza, un tassello rilevante nel racconto dei crimini di guerra di Vladimir Putin: inchieste così valgono un mandato di cattura internazionale.

Libri che sopravvivono

«Datemi un libro, per favore», chiede Alexei Naval’nyj al momento dell’arresto quando viene spogliato di ogni cosa. Un libro, Naval’nyj, ha dato poi ai suoi lettori, ai suoi sostenitori, a chiunque lo leggerà (conoscendolo anche meglio di quanto non lo abbia conosciuto quando era in vita). Un libro è ora Alexei Naval’nyj: di lui Patriot (Mondadori) è ciò che resta. Leggerlo porta a interrogarsi su cosa s’è fatto finora, su cosa si dovrà fare domani in questo mondo, per riprendere le parole di Stassi, «uscito fuori dai cardini». «Tra tutti gli avversari di Putin, Naval’nyj, senza alcun dubbio, era la personalità più limpida e più forte», ha scritto il Premio Nobel Dmitrij Muratov, su «Novaja Gazeta», nel necrologio che gli ha dedicato.

«Affinché un uomo non sia privato semplicemente della libertà, ma sia umiliato, sia trasformato in un invalido. In un cadavere vivente. E a volte, semplicemente in un cadavere. Con i conti abbiamo fatto un po’ di confusione, ma alla fine Naval’nyj ha passato nello shizo 308 giorni. Nell’ultimo video della sua vita Naval’nyj scherza. E questa era la sua possente qualità. L’umorismo è più forte dei proclami più irati.

L’umorismo di Naval’nyj era persino sconcertante», continua Muratov. Con umorismo sconcertante il dissidente russo («sono davvero di buon umore? O mi costringo a sentirmi così?») si racconta nel suo memoir, rischiara il suo vissuto col lume della testimonianza in un libro che gli è sopravvissuto e ci parla con una prosa scarna, tagliente e ironica, stringatamente saggia («in questo momento sto svolgendo la parte sgradevole del mio mestiere preferito»), con una lingua di verità che è la lingua che fa paura ai potenti («Dobbiamo fare quello che temono: dire la verità, diffondere la verità»), perché è vero che le parole sono importanti e in certi momenti lo è ancora di più.

Ogni persona, ogni vicenda individuale è chiave di lettura per il collettivo perché differisce o somiglia a tante altre, diversa da tutti e da nessuno, illumina grandi e piccole storie, ci ricorda che spegnere certe luci, in un salto sensoriale, equivale a un pauroso silenzio.

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