Era solo una questione di giorni e alla fine è successo nel palazzo che da sempre è la Mecca della Nba: il Madison Square Garden di New York. Tre partite prima Stephen Curry, l’uomo che ha rivoluzionato la pallacanestro contemporanea, aveva dichiarato di volere battere due record nella stessa sera: quello per i tiri da tre segnati in una singola partita e quello per i tiri da tre segnati in carriera.

Non ci è riuscito – e si è poi pentito della dichiarazione – ma l’appuntamento con la storia è stato solo rimandato di tre partite dagli avversari di Portland, Philadelphia e Indiana, che si sono dannati a difendere con un’intensità da playoff sulla linea da tre, lasciando piuttosto aperta la via per il canestro.

In questo modo i loro giocatori hanno evitato di prendersi il record “in faccia” e diventare un highlight di quelli che fanno milioni di visualizzazioni su YouTube (una cosa che è capitata anche a Curry quando Kyrie Irving lo sverniciò durante l’ultimo minuto di gara 7 delle Finals 2016).

Alla fine l’inevitabile è avvenuto nel primo quarto di Golden State-New York. A provare, invano, a difendere in questo caso è stato Alec Burks, un ex compagno di squadra di Curry. Partita interrotta, tutto il pubblico del Garden in piedi, grandi abbracci a Draymond Green (“l’orso ballerino”, il giocatore con il più alto numero di assist alle triple di Curry) e agli altri compagni.

Abbracci anche da Steve Kerr, l’allenatore con cui ultimamente è in contrasto per le rotazioni che non gli permettono di entrare in ritmo partita, al padre (ex giocatore Nba), alla madre e infine a Ray Allen, il precedente detentore del record.

Al Garden era presente anche Reggie Miller, un cecchino dell’era Jordan che prima di ieri sera era secondo nella classifica assoluta e ora è terzo. Il pubblico, benché non sia quello di casa, festeggia, anche perché ormai ovunque atterri l’aereo privato dei Warriors una buona parte degli spettatori non tifa per la squadra di casa (o solo per la squadra di casa) ma esulta anche ai canestri di Steph.

Prima e dopo

L’importanza di Curry per il gioco della pallacanestro non è contenuta solamente in questo record, battuto con diversi anni di carriera ancora davanti e nonostante gli infortuni che più volte l’hanno tenuto lontano dal campo.

Stephen Curry è un giocatore rivoluzionario, esiste una Nba, e di conseguenza una pallacanestro globale, prima di lui e una dopo di lui. Al contrario di LeBron James, l’altro giocatore iconico di questa era del gioco, Curry non è entrato nella lega come un predestinato.

Al draft di ingresso sei giocatori sono stati scelti prima di lui, tre di loro non giocano neppure più in Nba, due hanno avuto buone carriere, uno (James Harden) è diventato una superstar. Nessuno di loro però ha nemmeno lontanamente avuto l’impatto di Curry, né ha vinto quanto lui.

Perennemente sottovalutato perché troppo piccolo (almeno per gli standard Nba, essendo alto 1 metro e 88), troppo lento, troppo leggero, Curry è stato vittima di tutta una serie di bias tipici di chi crede che la pallacanestro sia solo uno sport per giganti iper atletici.

Negli anni è riuscito a smentire tutti, uno dopo l’altro, e oggi è primo nella lista dei candidati a miglior giocatore della stagione, titolo già vinto due volte in passato, di cui una all’unanimità (mai successo prima di allora).

Curry è uno dei giocatori con meno elevazione di tutta la lega, le sue schiacciate, gesto iconico della Nba, sono rarissime, in compenso prima di lui a nessuno sarebbe venuto in mente di tirare dal logo del centrocampo a meno che non stesse scadendo il tempo.

Curry ha esteso il territorio di pericolo per un difensore all’intera metà campo offensiva, costringendo allenatori e giocatori a cambiare totalmente il loro approccio al basket.

Pregiudizi tattici

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C’è una storia parallela che fa capire cosa siano i pregiudizi tattici nello sport e nello specifico nella pallacanestro: quella di Wilt Chamberlain. Centro dominante della sua epoca, come giocatore Chamberlain aveva un solo difetto: non sapeva tirare i liberi, quindi gli avversari gli facevano fallo sistematico e cercavano così di limitare i danni (la stessa cosa che accadde poi anni dopo con Shaquille O’Neal).

Una stagione però qualcuno suggerì a Chamberlain un nuovo modo di tirare i liberi: con due mani, lanciando la palla dal basso verso l’alto. Quell’anno Chamberlain ebbe la migliore percentuale della sua carriera dalla linea del tiro libero.

C’era però un problema, il gesto in sé era ridicolo, non sembrava per nulla professionale anche se poi gli esiti statistici erano nettamente migliori. Umiliato dalle risate del pubblico e degli avversari, Chamberlain finì per riprendere a tirare con il vecchio metodo anche se questo comportò peggiorare le sue percentuali, tornò quindi scientemente a giocare peggio.

E Chamberlain non era un giocatore qualunque, ancora oggi rimane uno dei cestisti più importanti della storia della Nba. Il punto è che quando tutti fanno le cose in un modo è straordinariamente difficile farle in un modo diverso, anche quando questo modo è chiaramente migliore.

Cambiare un gioco, il modo in cui è concepito, insegnato e praticato da milioni di persone in tutto il mondo è una sfida titanica, e c’è solo una via per riuscirci: mettere tutti quanti in crisi.

Curry ha costretto i general manager e gli analisti delle altre squadre a mettere mano ai computer, abbandonare i pregiudizi e rifare i calcoli, così, grazie al suo esempio, si è scoperto quello che si sarebbe facilmente potuto scoprire un paio di decenni prima, ovvero che con le percentuali che ha un buon tiratore ha senso tirare molto, molto, di più da tre durante una singola partita.

Nessuno ci aveva pensato, perché istintivamente sembrava ovvio a tutti che tirare da sotto canestro fosse meglio. Così come si è scoperta un’altra cosa ovvia: anche i giocatori più alti, se si allenano, possono tirare da tre molto bene, cosa che per anni si era considerata – per nessun motivo razionale – impossibile.

Nell’era di Curry i tiri da tre per squadra a partita sono passati così da circa 10 a oltre 35. A suo modo, comunque, Curry è un giocatore estremamente atletico, solo che lo è in orizzontale e non in verticale, ogni partita compie chilometri e chilometri nella metà campo avversaria, prende e porta blocchi, si smarca, taglia, scompare alla vista, riappare dall’altra parte del campo, insomma è in movimento perpetuo ed è un incubo per le difese avversarie.

Negli anni è diventato sempre più muscoloso, in particolare quest’anno si è presentato ai blocchi di partenza con un fisico come esploso, eppure, miracolosamente, non ha perso nulla in velocità d’esecuzione, ha solo guadagnato in stabilità quando entra sotto canestro e si infila fra uomini di 2 metri e 15 che possono pesare facilmente 130 chili.

Incubo della difesa

Quest’ultimo è l’aspetto più sottovalutato del gioco di Curry: al contrario di Ray Allen o di Reggie Miller, Curry non è solo un grande tiratore ma anche uno straordinario penetratore, un giocatore capace di distribuire assist e prendere un numero sorprendente di rimbalzi per il suo ruolo e la sua altezza.

Più di tutto Curry fa collassare le intere difese avversarie, costringendo le squadre a raddoppiarlo o triplicarlo, il che significa che su 5 giocatori in campo in determinati frangenti 3 marcano Steph.

Insomma Curry è una super star completa, non solo uno straordinario giocatore di ruolo. La sua meccanica di tiro è forse leggermente meno perfetta di quella del compagno di squadra – e altro cecchino epocale – Klay Thompson, ma è di un’eleganza che sembra sospendere il tempo, forse proprio in virtù delle leggere imperfezioni.

Appena finite le celebrazioni è andato in onda uno spot del produttore delle sue scarpe in cui Steph dice: «Mi chiedono sempre cosa penso quando tiro», segue lungo montaggio di immagini di Curry che tira all’età di tre anni in un piccolo canestro di plastica fino alle finals contro LeBron davanti ai 20mila di Okland e ai milioni di telespettatori in tutto il mondo.

Cosa pensa dunque? «Absolutely nothing», assolutamente nulla. È questo lo zen di Stephen Curry, ad oggi senz’altro il più grande tiratore che il gioco della pallacanestro abbia mai avuto, forse in futuro il Goat, the greatest of all time, di certo il più rivoluzionario di tutti.

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