Mario Desiati parteciperà sabato 24 luglio a Letterature, il festival internazionale di Roma presso lo stadio Palatino con un intervento dal titolo “Preparativi per le nozze”.

Questa è la storia del nostro matrimonio anche se poi nessuno lo ha celebrato, anche se poi lei, Roza Kinkladze, non è mai venuta al municipio di Marzahan dove un funzionario ci avrebbe sposati con due testimoni raccattati nella sala slot dell’atrio tra i tigli luminosi.

Sono rimasto celibe, o spatriato come dicono di quelli come me e come direbbero di quelli come Roza che in ognuna delle sue sette vite è emigrata. Spatriati come dicono di quelli come noi, che siamo diversi da come dovremmo essere per gli altri.

Rosa bianca

Ci siamo innamorati al principio di un’estate. Io ero arrivato in città da poco, parlavo poco tedesco, investivo i miei risparmi in una vita nuova, una casa da affittare, un costoso corso di lingua, un nuovo guardaroba per l’inverno. Imparai subito che non esistono cattivi inverni, ma solo cattivi vestiti contro il freddo.

Roza è georgiana, ma parlava tedesco meglio dei berlinesi. Girava con una compagnia di saltibanchi per le città della Baviera e la Sassonia. Artisti di strada vorrebbe il lessico inclusivo, ma saltimbanco era parola degnissima nel mio mondo, ogni anima ha un suo lessico e a me facevano pensare ai guitti di Kafka, alla libertà degli uomini contro le regole dominanti delle convenzioni, gli imperativi del quieto vivere. I guitti sono poverissimi, ma liberi.

Si vestiva da uomo, con una salopette nera scamiciata, i pantaloni larghi e scarpe sportive piene di toppe che avevano preso il colore della strada. Capelli ricci e rossi, un tratto nordico ma la pelle color ceramica trapuntata da minuscole lentiggini. Mangiava il fuoco in mezzo a cerchi di spettatori curiosi che poi svuotavano le tasche nel suo cappello di velluto gettato a terra.

Mi presentai a lei donandole una rosa bianca, dopo uno spettacolo dove l’avevo visto camminare altera tra cerchi di fuoco. Solo chi sa camminare in mezzo al fuoco conosce l’umanità, perché l’umanità è nata con la luce. Là dove c’era la luce c’era anche un fuoco e per millenni qualcuno ha tramandato l’arte di saperlo accendere. Rari esemplari umani hanno imparato anche a saperci camminare dentro e addirittura mangiarlo.

Le dissi che l’amavo senza neanche averle parlato perché a quel tempo seguivo certi spiriti che mi suggerivano i gesti da compiere e le parole da esprimere. Questi spiriti sono l’ispirazione e nella vita si è pochissime volte ispirati davvero. Bisogna aver cura di accoglierli quando loro ti vengono a trovare.

Roza riempiva la bocca con due dita di un liquido chiamato petrolio bianco, anche se bianco non è. Lo tratteneva chiudendo la faringe con la lingua, e sputandolo con labbra serrate e la mandibola socchiusa. Ai mangiafuoco possono cadere i denti. E Roza si era rifatta già l’arcata superiore, ma sotto c’erano i suoi denti originali, storti e bianchissimi, assomigliavano a minerali di calce. E io volevo morire in ognuno di quei cristalli bianchi.

Innamorarsi

Una sera l’accompagnai portandola sulla canna della mia bicicletta. Le chiesi se aveva paura. Risposta di Roza «Sono di ferro, sai quante ne ho passate?». E io invece facevo attenzione, le studiavo la curva della gola che diventa collo sotto la chioma rossa di capelli sparpagliati sulle bretelle della salopette e pensavo, non sei di ferro, sei di terracotta.

Nella mia vita non avevo mai portato nessuno in bicicletta. E con lei venne naturale. Tutto viene naturale quando ci si sta innamorando. Quella notte si udivano ronzii dai cespugli, perché a Berlino ci sono parchi dappertutto e sono fitti come boschi, animali minuscoli, uccelli acquatili, vermi insonni, volpi, anche lupi. In quella sospensione e silenzio, giungeva lontanissimo il basso di una festa privata, i pedali emanavano un cigolio e la dinamo fischiava.

Parlammo infinite notti prima di fidanzarci, quando non riuscivamo a capirci, lei scuoteva la testa come fanno i proprietari delle cause perse. Poi infilava i pollici sotto le due bretelle della salopette e rivolgendoli contro di me s’impettiva come se stesse allargando la sua aura per far posto anche a me. Perché innamorarsi è spatriarsi completamente in un altro mondo e spatriarsi è varcare un confine e se non lo si riesce a varcare, allora lo si allarga. Questi gesti assomigliavano a dei rituali. Ogni rituale tra innamorati è carburante misterioso che si brucia, un’energia che non va trattenuta perché quello che non viene bruciato fuori, poi brucia dentro.

Quando si è innamorati si notano anche le cose invisibili e noi parlavamo alla nostra bicicletta «Hai fatto proprio la brava stasera». La scenetta andò avanti per un paio di settimane, finché una notte me la dimenticai in uno dei vagoni della S-Bahn.

«Lasci tutte così le donne che ami?» Mi disse Roza.

«Perché dici questo?»

«Chi non si cura delle cose, non lo fa neanche con le persone».

Parlavamo tedesco, inglese, spagnolo e italiano. I nostri errori di grammatica ci facevano ridere e assomigliavano ai nei sul labbro delle persone affascinanti. Poi cominciai pure a studiare il georgiano che è un alfabeto antico, ha quasi duemila anni e assomiglia al greco, all’arabo, al turco e le lettere sono arabeschi raffinati, la L è una M capovolta e la Z è come il segno dell’infinito. Non riuscii a imparare a memoria tutte le trentatré lettere, ma imparai a dire ti amo. მიყვარხარ (miq’varkhar).

Incontrarsi in una lingua neutra assomiglia a una tana dove nessuno può trovarti, perché quella lingua cambia grazie alle parole miste, con la nostra sintassi personale, con gli accenti che ci inventiamo e i gesti che accompagnano una parola.

Aspettare la luna

Andai a vivere nella sua mansarda. C’era solo un letto a terra e la finestra. Le sue cose stavano impacchettate ai lati della stanza come se ogni giorno fosse l’ultimo prima di un trasloco. Una volta al mese si vedeva la luna e aspettavamo a dormire per commentarla. Quando crollavo le infilavo la mia testa nel cavo tra la sua nuca e la clavicola, mi abbracciavo le spalle rannicchiandomi contro di lei. Mi concentravo sul suo respiro. Sapevo esattamente il momento in cui Roza avrebbe chiuso le palpebre sulle mie iridi.

A un controllo della polizia come tanti ne fanno ai saltimbanchi come lei, e un po’ come me, Roza scoprì che il suo permesso di soggiorno non era rinnovabile. La Georgia non è ancora uno stato della comunità europea. Roza doveva ripartire e aspettare tre mesi per ottenere almeno un visto turistico e dunque poter tornare per al massimo due mesi. L’amore romantico, come tutti gli innamoramenti, non ha una meta e se per puro caso l’avesse, non avrebbe la strada e dunque per salvarlo non resta che indugiare.

Quella notte indugiammo, chiacchierando un sacco. Io piansi e dissi che sarei partito con lei.

Ma lei non commentò, non disse sì, fece un’espressione smarrita e poi rimase in silenzio.

Al mattino andammo al lago più vicino, era autunno, e il parco di Weissensee una sciarada gialla, arancione, rossa, ruggine. I tigli e i pioppi sembravano disegnati con le tempere, giovani passeggiatori solitari fotografavano i rami con i loro telefonini cercando di stupire gli amici lontani. Arrivati in un’insenatura cominciammo a contare le barche con quell’inerzia di chi non vuole pensare al peggio. Poi Roza si inoltrò tra le radici degli alberi acquatici, lì si spogliò lasciando cadere la salopette con un semplice clic dei pollici sulle bretelle.

Fu un lungo bagno, nuotò fino al centro del lago e poi tornò lasciandosi dietro una striscia sottile, una coda fatta di ombra e vuoto. Quando riemerse non tremava.

«Se neanche il lago mi ha voluta, dovrò davvero tornare in Georgia».

Disse Georgia e non disse casa, perché casa sua ormai era Berlino.

Le diedi la mia giacca e le chiesi se quello che aveva appena fatto era una cosa terribile che non le era riuscita.

«Hai provato a morire?» chiesi.

«Ho solo provato a rimanere», rispose.

A sera, quando tornammo nella mansarda sperammo fosse una di quelle volte in cui compare la luna dalla finestra sul letto.

«La notte prima di averti conosciuto, Mario, mi ero lasciata con la mia ragazza» mi confessò. «E tu sei arrivato con una rosa bianca al momento giusto. La Rosa bianca in Georgia vuol dire libertà, ci abbiamo fatto una rivoluzione con le rose».

Jung le chiamava sincronie. Quando si dà un senso alle coincidenze sorge l’affascinante sospetto di poter leggere nel proprio cammino umano addirittura una forma di destino. Una sorta di preveggenza.

Ma l’invisibile ancora mi intimoriva e nominavo in cuor mio la categoria rassicurante che noi chiamiamo fortuna. Sfacciata fortuna nell’aver scelto una rosa bianca per corteggiare una donna georgiana.

Fallimenti

Dunque sono un fidanzato di riserva? Protestai anche se avrei voluto dire un ripiego, ma non avevo le parole per certe sfumature. Mi innervosii. E salì dentro di un fango oscuro. Mi dissi che ero un fallito, mi insultai, so essere spietato quando comincio a denigrarmi.

Il fallimento è una lettera scarlatta che si portano addosso i migliori e i peggiori, le anime elette e le anime dannate. Io ho fallito tante cose nella mia vita. Ho fallito libri, lavori, amori, relazioni, ho fallito idee che sembravano perfette per cominciare una vita un po' più regolare, un po’ meno spatriata. Sono cresciuto in un mondo in cui il fallimento sembra il peggiore dei mali. Ma vivere è fallire, e il fallimento ci porta in fondo dove sono nascoste verità impensabili.

Cosa ne sai del fallimento? Mi interruppe Roza. Prese la parola con un tono lento, respirando piano. Mi raccontò che quando aveva vent’anni, durante una bellissima vacanza con gli amici s’innamorò per la prima volta di una ragazza. Di solito era sempre stata con i maschi, ma quella ragazza, era diversa, era una che guardava negli occhi quando parlava. E questo a Roza le era sembrata una cosa grandiosa, come la scoperta del fuoco. Lei che il fuoco all’epoca ancora non lo sapeva mangiare.

Con Patruna, questo il nome di colei che sarebbe stata la prima fidanzata, successe quello che succede quando scoppia un amore estivo, gli odori che cambiano, le promesse roboanti. Il mare a fine giornata quando è così calmo come un piatto di ceramica fa sentire gli innamorati come dentro una conchiglia. Poi un giorno Patruna e Roza si svegliarono nella loro conchiglia e non trovarono più i loro amici. Batumi, allegra cittadina della Georgia sul mare, s’era svuotata di tutti i maschi. C’erano in giro solo donne, i taxi e gli autobus non funzionavano. Non c’erano più uomini.

“La mobilitazione generale”. Tutti i maschi della Georgia erano stati chiamati per la guerra con la Russia. Una guerra che sarebbe durata otto giorni, breve, ma anche distruttiva.

Patruna venne a sapere che la cittadina di Gori era stata rasa al suolo. E lei era di Gori. Doveva tornare. Non c’era nessuna ragione per farlo, perché tutti fuggivano, ma sentì che doveva andare a cercare i suoi parenti. Chiese a Roza di andarci insieme. Roza disse di no, voleva raggiungere i suoi genitori a Tiblisi, prima dei russi.

Trovarono due macchine e partirono. Poco fuori Batumi, Patruna fu fermata a un check point. I russi erano già arrivati e fermavano le macchine dei georgiani che andavano a est. La macchina con Roza fu lasciata andare perché aveva una targa russa.

«L’hai rivista più?» Chiesi.

«No». Rispose.

«Hai provato a cercarla?»

«Sparita, sparite parecchie di persone così quei giorni».

«Capisco», chiosai.

«No, non capisci, questo è un fallimento. Io non ero lucida, non sono rimasta con lei. Non ho badato alle targhe delle auto».

«Sei qui che me la racconti proprio perché non siete rimaste insieme».

Ma lei mi rispose:

«Quella Roza è morta per sempre, quella parte di me non c’è più».

In quel momento sentii di trovarmi in un bivio fatale. E indugiammo insieme, nel modo migliore cha sapevamo fare, ossia cercando di far combaciare le parti più invisibili e diverse dei nostri due mondi.

«La cosa peggiore è stata guidare per ore in strade vuote seguendo un filo nero di fumo, è forse per questo che oggi sfido il fuoco».

«Me lo insegni?» Chiesi.

«Tu che non sai fare niente». Disse, con quella franchezza insinuante con cui da noi a Martina i vecchi reduci parlano ai giovani maschi.

L’innesco e il petrolio

Ma alla fine fu soltanto una posa. Finimmo per strada, ammantati da una notte di autunno, i condomini dalle facciate signorili e le finestre spente. Le case assomigliavano ad animali marini deposti nel fondo dei mari con le palpebre chiuse. Spruzzò il petrolio nella bocca da un flacone nello stesso modo in cui i ciclisti si rifocillano con le loro borracce. Le guance si gonfiarono e al soffio s’accesero due nuvole rosse. Immaginavo la sua lingua argine tra petrolio e faringe, i suoi denti artificiali che distillavano il combustibile. La nuvola rossa, poi arancione e infine un fumo chiaro prodotta dalla sua bocca mi trasmise una sensazione di infinito, quel lampo nel buio era lo stesso che avevano visto i primi uomini sulla terra che fecero brillare scintille tra due pietre focaie.

«Mi vuoi sposare?» Le chiesi a bruciapelo.

«Perché me lo stai chiedendo?»

«Non è una risposta», dissi.

«Vuoi farmi prendere un passaporto o vuoi una famiglia da me?»

«Tutte e due». Le dissi.

«Risposta sbagliata». Rispose. E si incupì.

Passammo dei momenti di silenzio lunghissimi.

«Chissà se hai paura del fuoco».

Mi lanciò l’accendino d’argento.

«Vorrei sposarti». Insistetti.

«Non voglio elemosine, se mi vuoi sposare devi venirmi a cercare in Georgia».

«E posso baciarti?». Le domandai.

«Può essere pericoloso adesso», disse alzando la fronte.

Al bacio la zaffata potente di petrolio occupò ogni cellula del mio corpo, mi commossi, una lacrima bagnò la guancia, anche se quella lacrima non era mia, ma di Roza.

«Cosa senti?», chiese lei.

In bocca avvertii il sapore di uno straccio pieno di spilli, amarissimo, con dei riflessi acidi e metallici.

«Allora cosa senti?». Ripetette più forte, con le nuvole di condensa che fuoriuscivano dai nostri nasi e le nostre bocche.

«Sento te», dissi e volevo dirle che sentivo la sua essenza, sentivo l’anima, sentivo uno spirito che non potevamo afferrare, sentivo che le mie parole non erano più all’altezza del pensiero.

Orione aveva preso la volta migliore dell’orizzonte e le stelle scintillavano nel cielo di Berlino.

«Quando tra vent’anni, oppure domani, oppure tra cento anni morirai sarò io a portare il fuoco sulla tua tomba», mi giurò con la bocca ancora ferrigna dei nostri baci al petrolio.

Desideravo fermare tutte le esperienze della mia vita, non andare oltre, nelle mie pupille brillavano i fuochi di Roza, il suono dei treni metropolitani al termine di un bacio assomigliano agli archi di un’orchestra esotica.

Restammo fermi nel freddo, con lo strepito lontano degli aerei e il brusio della notte che si faceva giorno; percepii alla fine di quel lungo bacio amaro di essere con lei, insieme a lei, solo con lei, luminosi, accecanti, intensi, di essere il fuoco che allontana le tenebre, eravamo uno l’innesco e l’altro il petrolio, ma i fuochi dei guitti, i fuochi di noi saltimbanchi, di noi spatriati, sono talmente improvvisi e abbaglianti che durano il tempo di un lampo al magnesio per poi diventare una caligine bianca, quasi trasparente come sarebbe stato un giorno il nostro addio. 

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