Se lo pronunci stracalt, all’americana, non funziona. Ma se lo pronunci stracult, all’italiana, ha in sé sia l’effetto di cool, figo, che di stra-all’italiana, nel senso di stra-paese. Blob, che mi ero inventato qualche anno prima per il celebre programma di Rai Tre – Ghezzi avrebbe voluto “di tutto di più” che finì poi come sottotitolo – era un titolo rubato a un celebre film di fantascienza anni Cinquanta, ma funzionava benissimo per l’idea di fluido mortale che tutto inglobava e digeriva. E non mi dite poi che era un’idea di Angelo Guglielmi, perché non è vero.

Stracult, invece, era proprio inventato da me, al punto che prima di diventare titolo del mio programma di cinema per la Rai Due di Carlo Freccero nel 2000, che firmò anche come co-autore col nom de plume di Sal Mineo, era stato il titolo del mio Dizionario dei film italiani stracult, edito dalla Sperling&Kupfer nel gennaio del 1999.

Ma già lo avevo usato come etichetta, come scritta di qualche momento memorabile a Blob, soprattutto quando montavo assieme a Alberto Piccinini o Antonella Rucci o Paolo Luciani, negli anni, per quel che mi riguarda, migliori e più inventivi del programma. Avete presente la scritta “Blob ieri” in alto a sinistra? Beh. Ogni tanto la cambiavo e scrivevo cose del tipo “Blob cult”. Da qui stra-blob o, meglio stra-cult.

Tutto qua, e, francamente, ricordo qualche anno prima discussioni infinite con Giovanni Buttafava, col quale dividevo la parte cinema dell’annuario dello spettacolo edito da Franco Quadri Il patalogo, su come tradurre in italiano proprio il termine “cult”.

Secondo Gianni poteva essere qualcosa come “film-santo”, come fosse un vinsanto insomma. Secondo me non andava tradotto. E poi, cosa definiva un film cult da uno di culto ancor più minoritario e assurdo? Cosa divideva il culto per un film di Steno o di Dino Risi, Piccola posta o Il segno di Venere, veri cult, da uno di Paolo Solvay tipo La bestia in calore o del più blasonato Fernando Di Leo?

Film cult e più che cult

Decidemmo insomma, dopo ore e ore di discussioni, allora si parlava tanto e questo mi manca moltissimo (e manca anche al cinema italiano di oggi, temo) che da una parte c’erano i film cult, come Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli o Salomé di Carmelo Bene o Catene di Raffaello Matarazzo, cioè film di un culto riconosciuto, e poi c’erano quelli fuori contesto, di culti assolutamente privati e minoritari, che io definii appunto, più che cult.

Dei due libri possibili che avremmo potuto fare, quello sul cult e quello sulle stravaganze e divagazioni del più che cult, Franco Quadri accettò ovviamente il primo, più tranquillo, anche se non così ovvio nel 1989, che si sarebbe dovuto intitolare Italian cult movie.

Cento titoli precisi che ci saremmo divisi da buoni amici. Gianni i film più alti io quelli più bassi. Solo che a lui piacevano anche quelli bassissimi, tipo i film diretti da Tano Cimarosa, i film operistici… Ho ritrovato proprio in questi giorni l’elenco definitivo. Ma il libro non si fece perché Gianni ci lasciò improvvisamente e con grande dolore di tutti, perché era una persona meravigliosa e di grande generosità.

Grazie a lui avevo conosciuto mia moglie, Alessandra Mammì, che era sua compagna di stanza all’Espresso, quando l’Espresso aveva ancora interesse per la cultura, diciamo, e ci scriveva perfino Bernardino Zapponi. E grazie a Gianni avevo potuto sviluppare la passione per il cinema più assurdo che trovava appunto spazio, allora, sul Patalogo, proprio mentre Aldo Grasso curava la parte sulla televisione.

Rimasto solo, qualche anno dopo, decisi di portare a termine il progetto. Ma non quello sui cult italiani, che erano diventati davvero ovvi nei primi anni Novanta. Roba che perfino riviste come Ciak ormai capivano. Bensì quello più assurdo dei film di culto minore e più scatenato, pornonazi, primi hard, musicarelli, poliziotteschi, softarelli, film d’autore sballati, film dei critici alla Fofi-Aprà-Bruno, film di Bevilacqua.

Un libro, insomma, per stra-stra-snob che nel 1989 non avrebbe mai trovato un editore, ma dopo la rivoluzione del camp e del trash dei primi anni Novanta poteva diventare se non caldo, almeno interessante.

Così, dieci anni dopo la scomparsa del mio unico maestro spirituale e amico fraterno Gianni, uscì, dedicato a lui, proprio questo Dizionario dei film italiani stracult, che iniziava con una frase di Roberto Rossellini che avevo letto su un suo quadernino da giovane cinefilo: «Il pubblico è così poco rispettato, che quando si vede rispettato profondamente, si sente perduto».

Il rispetto del pubblico, per me, era anche il rispetto del suo gusto e del suo amore per il cinema popolare. Il perdersi era l’abisso delle passioni impreviste e imprevedibili del pubblico.

Il libro, per anni, è stata l’unica fonte di studio, ma spero anche di divertimento, per tanti giovani cinefili che si stavano innamorando dei film italiani di genere, ma anche di quelli più assurdi. L’inizio per poter raccontare la storia del nostro cinema da altre angolazioni, non banali, che non fossero le strade ufficiali.

Da qui la riscoperta di tanti autori-non-autori, Enzo G. Castellari, Umberto Lenzi, Lucio Fulci, Alberto De Martino, Nando Cicero, Mariano Laurenti, lo stesso Di Leo, tutti personaggi che le reti nazionali avevano totalmente trascurato e che Stracult riportava con amore alla luce. Al punto che il tutto confluì poi, il primo anno della direzione di Marco Muller, nella grande rassegna veneziana Italian Kings of B’s con Quentin Tarantino come maestro di cerimonie e uno sponsor forte come Prada.

Grazie proprio agli studiosi più giovani di me – penso a Luca Rea che è entrato nel programma un paio d’anni dopo la sua nascita, ad esempio – mi sono reso conto che nella foga di rivalutare, scoprire e riscoprire, tendevo a mettere i film un po’ tutti sullo stesso piano, non considerando i diversi valori, anche storici, delle opere stesse.

Ma abbiamo operato in anni dove era ancora dominante, in parte lo è anche adesso, l’odio di certa critica contro i generi, al punto che due geni del nostro cinema come Mario Bava e Sergio Leone non avevano ancora lo status che meritavano.

Stracult dal 2000 a oggi

In quella lontana estate del 2000, quando nacque Stracult – in difesa del cinema che spacca, l’edizione con i titoli disegnati da Gianluigi Toccafondo, gli sketch con i rapper romani Piotta e Gmax – tantissimi protagonisti del nostro cinema di genere erano ancora in forma e ci buttammo alla loro ricerca con una passione da studiosi, ma anche con un rispetto per il nostro pubblico che venne immediatamente colto.

I Manetti bros mi dissero subito, dopo le primissime puntate, che la vera gioia per loro era sentire parlare registi e sceneggiatori, da Sergio Sollima a Umberto Lenzi, autori reali di un cinema che ci aveva fatto sognare.

Al di là dei tanti format che negli anni abbiamo cambiato, dei tanti presentatori-amici che abbiamo avuto, da Lillo e Greg a Paolino Ruffini, da Biggio all’adorata Andrea Delogu, ormai vera vestale fenechiana del programma, abbiamo sempre mantenuto la nostra indipendenza, proprio nel senso «Abbiamo fatto quel che volevamo fare»? – «Sì», e abbiamo sempre cercato di rintracciare qualcosa di nuovo, di inedito, di non studiato, di non ovvio.

Un programma supersnob, magari, su temi popolari, dove però si cerca anche di aprirci a quel che di nuovo può dare la scena cinematografica e televisiva attuale.

Oggi, a programma incredibilmente sospeso (poi mi spiegheranno davvero perché…), avrei voglia di invitare Silvia Calderoni, la star di Romulus e degli episodi della serie GucciFest diretti da Gus Van Sant e Alessandro Michele, a raccontare la storia di un misterioso caratterista come Pasquale Fasciano, gigante che girò una versione dell’Abominevole uomo delle nevi mai uscita, di ricostruire l’ultimo anno di vita di Buster Keaton in Italia tra un set di Franco e Ciccio e il trionfo al Festival di Venezia. Tutto questo è stato e sarà sempre stracult. In difesa del cinema italiano che spacca.

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