Ciudad Juárez, Messico, anni Novanta. Tantissime donne arrivano dalle zone rurali per lavorare nelle maquiladoras, fabbriche controllate dagli Stati Uniti dove si assemblano oggetti che ritornano poi al paese d’origine. Lavorano per pochi soldi e senza diritti, ma finalmente possono lavorare.

Ciudad Juárez, nel deserto del Chihuahua, è sempre stata una importante città di confine, ma a seguito del Nafta, il Trattato del Libero Commercio dell’America del Nord, diventa una zona praticamente libera di dazi, scatenando il fenomeno delle maquiladoras. In questo contesto, le giovani donne sono le operaie ideali poiché considerate più precise e più docili, ma non solo, quelle stesse giovani donne sono indicate anche quali vittime ideali.

Le donne uccise a Ciudad Juárez, senza contare le desaparecidas, hanno spinto l’antropologa Marcela Lagarde a introdurre anche in Messico, per la prima volta, il termine femminicidio: uccidere una donna in quanto donna.

Pronunciare il «femminicidio»

Attiviste e associazioni si mobilitano per fermare il fenomeno, riuscendo a introdurre nella legge messicana delle norme volte a prevenire questi fatti. Ma ciò non basta, perché la legge non viene applicata, e anzi, spesso sono le stesse forze dell’ordine a perpetrare stupri e uccisioni. Si arriva così a parlare di crimine di Stato, perché il femminicidio è consentito, in modo sistemico, dallo stesso sistema politico.

Le donne vengono violentate e uccise secondo un rituale che ogni volta si ripete: alla vittima viene strappato un capezzolo a morsi, viene tagliata a pezzi, e i resti del suo corpo scaricati ai margini della città, spesso davanti alle case dei boss del narcotraffico. Perché?

Sono state fatte molte ipotesi su questi femminicidi, la più accreditata è che essi siano compiuti appunto dalla criminalità organizzata del narcotraffico: come monito sia per il colonizzatore economico statunitense, sia per la comunità messicana, soprattutto le donne che, nell’ottica del machismo latino, hanno invaso lo spazio pubblico (per un quadro sociopolitico esaustivo si rinvia al saggio introduttivo Uomini che odiano le donne di Chiara Cretella, alla cui ricerca si deve quanto avete appena letto).

Sono molte le persone che lottano per cambiare le cose, una di queste è Susana Chávez Castillo. Susana è nata il 5 novembre 1974 proprio a Ciudad Juárez, dove abitava anche al momento della sua morte. Studiava Psicologia all’Università autonoma di Ciudad Juárez, ma soprattutto scriveva poesie, che spesso riportava sul suo blog Primera tormenta.

E per Susana la scrittura non era soltanto teoria, era prassi sovversiva, attivismo politico contro la dilagante violenza di genere. Leggeva le sue poesie durante reading ed eventi, a voce alta in quello stesso spazio pubblico in cui le donne venivano ammazzate, colpevoli di aver calpestato un terreno di esclusiva proprietà degli uomini. Susana lottava affinché le donne potessero essere libere di camminare nelle strade, di andare a lavorare e riuscire a tornare a casa, come ribadisce il nome dell’associazione di cui faceva parte, Nuestras Hijas de Regreso a Casa, nata dai familiari delle vittime di femminicidio.

Il corpo chiede giustizia

Al centro della poesia di Susana c’è il corpo, un corpo che chiede giustizia per sé e per le altre.

In Crepuscolo, la sua carne si fonde con il ricordo di Marisela Escobedo Ortiz, assassinata mentre protestava, pretendendo giustizia per il femminicidio della sua figlia sedicenne: «Così sto avanzando passo dopo passo / tenendo per mano la tua devastazione / […] / Così torno dentro me / smarrendo il conto delle tue ossa». Ossa, cuore, cosce, polmoni, labbra, capelli, gola: è come se la poesia di Susana attraversasse con le parole i corpi spezzati di quelle donne brutalmente uccise. Si dice infatti che se toccano una toccano tutte, e allora il sangue di Susana diventa lo stesso delle vittime, in una poesia che si rivelerà un triste presagio: «Sangue mio / di alba, / di luna spezzata, / di silenzio, / di roccia morta, / di donna che riposa, / che salta nel vuoto, / aperta alla follia».

Anche il paesaggio partecipa al dolore: sullo sfondo del deserto messicano – facilmente eleggibile a simbolo di una condizione esistenziale – Susana si trasforma in un «mare di tormente / di ossa perdute».

Ma nei versi di questa attivista non c’è posto soltanto per la sofferenza e per la compassione, è forte, invece, la consapevolezza di poter ribellarsi all’infame ordine delle cose.

È forte la pretesa di poter godere del diritto al proprio turno di prendere parola: «aspettiamo il nostro turno / in questa sera disarmata / perché si diffonda la nostra eco». Sì, perché sarà difficile aprire il varco, guadagnarsi spazio, ma quando Susana e le altre ci saranno riuscite, l’onda sarà inarrestabile: «che il colpo del mare rimanga nella memoria / penetrante». Purtroppo, come spesso accade, per le attiviste messicane il prezzo da pagare sarà molto alto, ma è certo che senza la loro lotta i terribili fatti di Ciudad Juárez si sarebbero evoluti in modo molto peggiore.

Tra il 5 e il 6 gennaio 2011 Susana viene mutilata e uccisa da tre ragazzi di diciassette anni appartenenti alla banda denominata Los Aztecas. La causa è probabilmente il suo attivismo, ma non ci sono certezze sull’andamento dei fatti perché le autorità messicane hanno preferito sminuire l’accaduto e negare la militanza di Susana. Nonostante il suo femminicidio, Susana è ancora viva nelle lotte di tutte: è proprio dalle sue parole che prende il nome il movimento femminista Ni una menos (Non una di meno). Nonostante non ne sia rimasta traccia, infatti, sono numerose le testimonianze a sostenere che sia stata proprio Susana Chávez a scrivere quel motto così carico di amore e di rabbia: «Ni una mujer menos, ni una muerta más». Non una di meno, non una morta di più.

Sangue nostro

Sangue mio
di alba
di luna spezzata,
di roccia morta,
di donna che riposa,
che salta nel vuoto,
aperta alla follia.
Sangue limpido e definito,
fertile e semenza,
Sangue incomprensibile gira,
Sangue liberazione di sé,
Sangue fiume dei miei canti,
Mare dei miei abissi.
Sangue istante dove nasco dolorante,
Nutrita dalla mia ultima apparizione.

Donna ascia

Donna
lontana,
improbabile
travestita da ragione,
forza senza sangue.
Maga mocciosa allungata sulle tempie
che chiamano incertezza.
Abisso interiore che non conosce mosse
che cattura con i suoi silenzi.
Atroce,
irresistibile al desiderio di mordere la notte
titubante nel disincanto
impreziosita da racconti
tranquilla in lontananza.

Donna istante,
ascia
che trascini,
che tagli lingue sparpagliandole
nella mano di Dio che si contorce di risa con te.

Fuggitiva alla tua cattura me ne andrò
sapendo perfettamente
che sei invincibile.

Corpo deserto

Alcuni caricano il mio corpo deserto
dietro la schiena
come se fosse il sentiero
un giorno percorso verso me.
Nel frattempo, mi mescolo inclemente
con ceneri di tutte le quieti
trasformata in mare di tormentate,
di ossa perdute.
In qualcosa di indistinguibile,
mitologico,
ancora più errante di CRISTO,
e del pianto.
Più insolente della cecità,
più infuriato di un membro di carne eretto,
più ordinario della mano infilata
nella gonna di bambina,
più prestato del denaro.
Mi trasformo in dolore conficcato
in carne vuota,
in perseguitato che ti perseguita,
scavatrice di grida,
in abitante
di questo corpo
deserto.

Manifesto di petizione

Che cessi il grido tutto intorno
dietro le sedie chiamandoci.
Che cessi l’attesa per l’eternità
stanca di aspettarci,
che il silenzio diventi trasparente
in modo che il vero suono
trapeli finalmente la sua anima.
Che il “cerchio perfetto” si converta in luce accesa
in qualcuno che apre una porta.

Che il colpo del mare rimanga nella memoria,
penetrante.
Che cessino le abitudini dell’incertezza,
che cada la pioggia dove la cenere si bagna,
che la nostalgia lavori sempre nella neve,
che mi lascino interrompere il gioco
di tacere,
che Dio benedica le scarpe rotte
e ci privi dell’abitudine così rincorsa del dolore.

FONTI

S. Chávez, Primera tormenta, traduzione e cura di Chiara Cretella, Gwynplaine edizioni, 2020

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