Se andate in Corea, non lasciate la mancia, è offensivo: fornire un buon servizio è un dovere, non un favore ed essere cortesi un pilastro della cultura nazionale. Insieme ad integrità, perseveranza, autocontrollo e spirito indomito, la cortesia è uno dei cinque principi fondanti del taekwondo che, definire sport nazionale è certamente un limite: meglio rappresentarlo come il terreno fertile in cui il fascino della penisola affonda le sue radici.

Forse non è un caso che, nel piccolo villaggio del sud di nome Bangye-ri, si sia radicato l’albero più bello del mondo. Oltre 860 anni di età, più di 33 metri di altezza per 37 di diametro: in autunno diventa dorato ed è capace di attirare, da solo, migliaia di turisti. È un ginkgo biloba alle cui foglie, la tradizione orientale attribuisce il significato di pace, speranza, connessione tra tutti gli esseri viventi.

Ecco, il taekwondo è come un humus di armonia, lavorato dalla storia della penisola coreana, crocevia di scambi tra Cina e Giappone, bersaglio strategico e perciò di conquista. E come ci sono sport che portano i segni della storia di un popolo e persone che segnano la storia di uno sport, ci sono anche storie, come quella di Angelo Cito, che intrecciano la ricchezza delle influenze reciproche.

Andiamo per ordine, le va di partire dall’inizio?

Mi ha appassionato fin da piccolino. L’ho trovato subito spettacolare, dinamico, coinvolgente. Ho iniziato il taekwondo a 12 anni, poi sono stato atleta, dirigente, segretario generale fino a diventare, nel 2016, presidente della federazione nazionale (FITA).

Posso dire di aver guardato a questa disciplina da angolazioni diverse anzi, per l’esattezza, da tutte le diverse prospettive possibili. E mentre ho accresciuto la mia esperienza personale, ho vissuto l’affascinante viaggio che ha portato un’arte marziale a diventare disciplina olimpica.

Le origini del taekwondo (da “tae "colpire col piede, “kwon "colpire col pugno e “do" disciplina) portano almeno a 2300 anni fa. La lunga storia di scambi e invasioni che ha caratterizzato la Corea, ha disegnato anche i tratti dell’arte marziale e ne ha consolidato il valore spirituale. Come è stato possibile trasformare un tale bagaglio culturale in una disciplina sportiva? L’anima tradizionale e quella agonistica riescono a convivere?

Assolutamente sì, i cinque principi fondanti sono imprescindibili. La tecnica ha subìto una notevole evoluzione per poter rendere la disciplina comprensibile e valutabile con logiche di classifica. Anche la tecnologia ha aiutato, con la creazione di un corpetto con la duplice funzione di proteggere e di rilevare i contatti.

Tuttavia l’aspetto pedagogico è rimasto la pietra angolare su cui poggia tutto il movimento globale. I nostri allenatori sono chiamati “maestri” e hanno l’obbligo morale di insegnare la tecnica esecutiva attraverso l’educazione ai princìpi, a costo di rallentare o addirittura bloccare la crescita agonistica se non supportata da un’adeguata interiorizzazione dei valori.

È stato inserito come disciplina promozionale ai Giochi di Seul nel 1988 ed è entrato ufficialmente nel programma dal 2000, a Sydney. Da allora è praticato in tutti i continenti da circa 70 milioni di persone, diventando la disciplina olimpica in più rapida ascesa.

Con la sconfitta del Giappone, nel secondo conflitto mondiale, termina la sua occupazione del territorio coreano. Da quel momento però si crea la divisione prima politica, poi territoriale che tuttora perdura. Proprio nel 2000 a Sydney, per la prima volta, Corea del Nord e del Sud, hanno sfilato insieme sotto un’unica bandiera. Si può dire che esiste anche una geopolitica del taekwondo?

Esistono due organismi internazionali che rispecchiano le due diverse realtà coreane. La WTF (World Taekwondo Federation) che ha sede a Seul, è riconosciuta dal CIO (Comitato Olimpico Internazionale) ha come membri 214 federazioni nazionali, tra cui la nostra e ha seguito lo sviluppo del taekwondo come disciplina olimpica.

Poi c’è la ITF (International Taekwondo Federation) ancorata all’antica arte marziale, che fa capo alla Corea del Nord ed è legata alla sua politica. Ma il taekwondo è “sport di speranze e sogni” come dice l’incisione sulla statua del museo olimpico di Losanna, inaugurata per il cinquantenario della federazione internazionale (WTF).

Un motto che sottolinea il significato di pace e unione tra popoli di una disciplina che lo persegue anche con un concreto impegno umanitario. Mi piace ricordare di aver promosso e realizzato un evento di taekwondo a Casa Italia, durante le Olimpiadi invernali di Pyeongchang (2018): atleti della Corea del Sud si sono esibiti alla presenza di due atleti della Corea del Nord e sotto gli occhi dei presidenti dei due organismi internazionali. Il presidente della WTF in quell’occasione disse che la pace è molto più preziosa della vittoria. Il presidente della ITF reagì dicendo: «Siamo tutti coreani».

Ma l’impegno del taekwondo non si ferma ad azioni di distensione…

La Federazione internazionale (WTF) a cui noi diamo il nostro contributo come federazione nazionale, cura una fondazione umanitaria attiva nei campi profughi, in particolare in quello più grande, in Giordania dove vivono più di 60.000 persone. Grazie alla disponibilità di nostri maestri e istruttori, i giovani vengono avviati al taekwondo dando loro uno stimolo, una speranza e forse un sogno.

Negli ultimi due anni, in Italia, nel nostro centro federale abbiamo ospitato, supportato, grazie anche all’aiuto del governo, Hadi Tiranvalipour, un taekwondoka iraniano, già oro alle Universiadi, cacciato dalla tv iraniana, dove conduceva un programma, per aver espresso incoraggiamento verso la rivoluzione delle donne.

Parteciperà ai Giochi con la squadra olimpica dei rifugiati, che il CIO ha introdotto dalle Olimpiadi di Rio 2016 per rappresentare i 100 milioni di sfollati nel mondo a cui inviare un messaggio di speranza e fiducia. Oltre a Hadi ospitiamo anche 7 atleti ucraini e un’atleta afghana. Li abbiamo aiutati perché potessero continuare il percorso sportivo nonostante la guerra e i drammi dei loro Paesi. E loro ci hanno aiutato a crescere, a tenere lo sguardo ampio, oltre le medaglie e i titoli.

Brillate anche in quanto a gender equality se non sbaglio.

Il taekwondo nasce sul principio di parità, non abbiamo aspettato le recenti direttive CIO per muoverci. Fin dall’esordio olimpico sono state quattro le medaglie in programma, per due categorie di peso maschili e altrettante femminili. Stessa cosa per gli ufficiali di gara. È bello vedere incontri tra uomini dei pesi massimi diretti e arbitrati da donne, magari anche minute di corporatura: un messaggio importante, denso di significato. Anche in federazione nazionale io ho voluto avere parità di genere tra i dipendenti.

Senza fare pronostici e quindi scomodare la scaramanzia, possiamo presentare la nostra nazionale olimpica e paralimpica?

Abbiamo qualificato tre atleti su un massimo di quattro, sono Vito dell’Aquila, già oro a Tokyo; Simone Alessio, da due anni in cima al ranking mondiale; Ilenia Matonti, bronzo europeo a soli 19 anni e Antonino Bossolo per il para-taekwondo. Sono fortissimi ma non voglio dire altro. La pressione è sempre alta per i Giochi.

Ma il sollievo arriva da parole illustri. Durante la cerimonia di consegna del tricolore ai portabandiera, Sergio Mattarella ha detto ad atlete e atleti che le medaglie sono importanti ma ciò che onorerà l’Italia sarà il loro comportamento di ambasciatori di pace. Con le sue autorevoli parole, Mattarella ha espresso ciò che il taekwondo dice da sempre.

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