Solo i festival possono salvare il cinema, tenerlo vivo, dice Cate Blanchett nel documentario La parte del Leone, co-produzione Rai e Canal+ per gli ottant’anni della Mostra; è passato qualche giorno fa qui al Lido e adesso lo trovate già su RaiPlay. Nessuno si salva da solo, nemmeno (soprattutto) il cinema, nemmeno il cinema che quest’estate pare più in salute che mai, grazie all’onda lunghissima del Barbienheimer – ma, dicono gli analisti, nei prossimi mesi si prevede un buco di 500 milioni di dollari, causa sciopero di sceneggiatori e attori che sta bloccando le produzioni dei grandi Studios.

Solo i festival possono salvare il cinema, e la Mostra del Cinema di Venezia quest’anno sembra più salva e più viva che mai, e dire che anche qui lo sciopero aveva minacciato di guastare la festa. Niente Luca Guadagnino con il suo Challengers in apertura (dunque niente Zendaya, la star maxima del momento, sul tappeto rosso) e qualche defezione importante (su tutte quella di Bradley Cooper, regista di Maestro ma pure protagonista, perciò scioperante insieme ai colleghi della Screen Actors Guild perché la sua opera seconda è prodotta da una major, vale a dire Netflix). Ma son passati tanti volti di quelli che titillano le folle di fan davanti al Palazzo del Cinema (Adam Driver, Patrick Dempsey, l’euphorico Jacob Elordi, l’icona Priscilla Presley), e soprattutto abbiamo la conferma, quest’anno più che mai, che quelle folle, spesso giovanissime, sono interessate anche ai registi, che a questo giro son divissimi anche loro (li possiamo chiamare registar, come le archistar?); nomi come Woody Allen, Yorgos Lanthimos, Sofia Coppola, David Fincher, pure il presidente di giuria Damien Chazelle: alla serata d’apertura i fan davanti al red carpet reggevano poster di La La Land da farsi autografare.

Dunque, in questa edizione duemilaventitré, una Mostra del Cinema in senso strettissimo, a cui il pubblico risponde numeroso e giubilante: quasi il 20 per cento in più di ingressi complessivi nelle sale rispetto all’anno scorso, annuncia la Biennale, numeri importanti in tempi in cui, appunto, portare la gente al cinema è un’impresa (e qui devono pure venirci in vaporetto). Gli spettatori si riprendono la Mostra, o forse era sempre stata loro, certo quest’anno è più divertente chiedere in giro per il Lido il parere degli spettatori più giovani, quelli che al massimo hanno il temutissimo accredito verde o che i biglietti se li comprano con la loro paghetta, che quello di certi critici che vengono qui da quarant’anni e son sempre più scontenti, sempre a borbottare.

Del resto Venezia 80, signora âgée ma arzilla assai, intercetta il sentiment, come si dice oggi, del nostro tempo. Barbie e tutto ciò che simbolicamente significa torna nel titolo più applaudito finora, dunque principale candidato al Leone d’oro: Poor Things di Lanthimos (da noi in sala il prossimo gennaio col titolo Povere creature!) è una sorta di Barbie solo più arty e più perversa, la storia di una pupazza anatomica (monumentale Emma Stone) assemblata da una specie di dottor Frankenstein (Willem Dafoe) che scopre non la morte ma il sesso, e abbandona la sua Dream House popolata di animaletti surrealisti per andare alla scoperta del mondo; e c’è anche un simil-Ken (Mark Ruffalo) che fa comicamente a pezzi il patriarcato che incarna. E pure la Priscilla di Sofia Coppola, piaciuto molto agli stranieri e meno ai recensori nostrani, è una bambolina prigioniera a Graceland che deciderà di affrancarsi dal matrimonio con il mito Elvis, e da tutto ciò che machisticamente rappresenta.

L’altro sign of the times che percorre il concorso sta nelle storie di guerra e migrazioni: i profughi siriani e afghani che tentano di attraversare il verde confine tra Bielorussa e Polonia per entrare nell’Unione Europea (Green Border di Agnieszka Holland, altro candidato di peso ai massimi premi); i due ragazzi senegalesi che prendono la rotta del deserto e poi del Mediterraneo con la vana illusione di avere una vita migliore in Italia (Io capitano di Matteo Garrone, bel film didattico piaciuto piuttosto unanimemente); e poi – anche se per alcuni il messaggio resta ambiguo, essendo il protagonista un fascista – il comandante Salvatore Todaro (Pierfrancesco Favino) che non obbedisce agli ordini dello Stato ma segue la legge del mare e decide di trarre in salvo un equipaggio che altri al suo posto avrebbero lasciato affogare (Comandante di Edoardo De Angelis, solido film d’apertura).

E poi, altro leitmotiv, tantissimi i biopic, spesso anche immaginifici, azzardati, spericolati. Il prodigio cileno Pablo Larraín in El Conde (produzione Netflix) s’inventa un Pinochet ancora vivo: è un vampiro e ha 250 anni. Bradley Cooper va sul classicone con il ritratto (stupidamente accusato in rete di “jewface” per via del naso prostetico troppo pronunciato) di Leonard Bernstein. Coppola, l’abbiamo detto, racconta a modo suo Priscilla. Michael Mann in Ferrari aggira il rischio-Bagaglino alla House of Gucci per un altro bozzetto convenzionale ma non privo di una certa eleganza. E Ava DuVernay con Origin tratteggia vita e opera (da Pulitzer) della scrittrice Isabel Wilkerson, piazzando un discorso complesso, per questi tempi bianco/neri, sul razzismo sistemico in grado di appassionare le stesse platee giovane di cui sopra.

Venezia continua a scoprire talenti, a crescere i “suoi” autori. Io ho un debole per Pietro Castellitto, già premiato tre anni fa (ma nella sezione Orizzonti) con l’esordio I predatori e ora in concorso con Enea, un film che come il suo autore è ambizioso, anche presuntuoso, ma vivo come poche cose viste quest’anno. E Venezia apre sempre di più al pop, scelta intelligente: per la prima volta in competizione a un festival così importante c’è Luc Besson con DogMan, molto piaciuto perché è un cartoon darkissimo che mischia centomila cose non senza un certo gusto kitsch, botte, esibizioni in drag, cristologia, e tantissimi cagnolini che aiutano a fare le torte o ammazzano i cattivi, a seconda di quel che serve; il tutto tenuto insieme da una performance esageratissima di Caleb Landry Jones, attore misconosciuto ma bravissimo (lo ha già premiato Cannes qualche anno fa) e un po’ novello Philip Seymour Hoffman.

Il resto è la solita “Lido life”, che cambia poco o niente ma va bene così, la Mostra è il festival di cinema più rilassante e a suo modo piazzato meglio, subito dopo le vacanze e prima della stressante ripresa della vita di città, una bolla in cui si lavora tantissimo ma sempre sospesi sull’acqua, fuori dal mondo. Solita vita, ovverossia: spritz che, come tutto, hanno subìto il caroprezzi dell’inflazione, difficoltà (impossibilità) di mangiare decentemente dopo le 22 (a meno di non avere le giuste entrature: io le ho), più festicciole divertenti dopo gli anni mesti di Covid, indirizzi “for veneziani only” da tenersi stretti e non rivelare a nessuno degli accreditati, se no ci si gioca pure quelli.

È una Mostra di Venezia, questa numero 80, tranquilla ma pimpante, sono gli ultimi giorni, quelli in cui solitamente molta gente è già partita, e invece stavolta ce n’è ancora tantissima, inviati e curiosi, giornalisti e spettatori. È una Venezia con film che generalmente piacciono, una macchina che funziona perfettamente (grazie di cuore per aver sveltito i controlli tra il Palazzo del Cinema e il mondo reale: anche noi siamo tutti un po’ Barbie, ogni volta che superiamo i varchi) e pochissime polemiche. Giusto Favino che dice, stuzzicato da Ferrari, “i ruoli degli italiani agli italiani” (ma è un suo tormentone da tantissimo tempo, e in fondo c’importa davvero schierarci su questo?). E il povero Woody, ingiustamente accusato dagli attivisti di Twitter (no, ora si dice X) per crimini mai commessi, che qualcuno prova a contestare quando passa sul red carpet per presentare Coup de chance, la sua ultima delizia giallorosa che i francesi hanno avuto il coraggio (capirai) e l’intelligenza di produrre. Io sul red carpet c’ero, ero lì a intervistarlo e ad abbracciarlo, a nome dei molti che gli sono grati per il suo cinema. Resta, spero non solo a me, quest’immagine della Mostra, un posto che ancora accoglie, dibatte, scopre, innova, mantiene la sua esperienza di splendida signora ottantenne, ma un po’ Barbie pure lei.

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