Una saga famigliare giunta alla quinta stagione su Netflix e una miniserie in sei episodi (o un film esteso) su Raiuno. La release in un’unica soluzione tipica delle piattaforme e la spalmatura sulla settimana della generalista, sebbene anticipata da un’anteprima su RaiPlay. La coincidenza di questo scorcio di “garanzia” – come si chiama in gergo l’alta stagione televisiva – ha voluto che venissero resi disponibili pressoché contemporaneamente due prodotti come The Crown e Esterno notte. L’affresco corale e longitudinale della dinastia reale più popolare del mondo e i due mesi più tragici della storia repubblicana italiana; gallerie infinite di personaggi che, a modo loro, condensano due biografie delle rispettive nazioni, frammenti di epoche che restituiscono alcuni dei tratti più significativi dei due paesi, di due comunità di destino aggrovigliate intorno alle incrostazioni del potere e alle sue rappresentazioni.

Diversissime su diversi piani e livelli, dal formato all’estetica, dalla chiave autoriale al processo produttivo, The Crown ed Esterno notte hanno in comune la rielaborazione e raffigurazione di due istituzioni sociali e politiche alle prese con rispettive crisi di identità e autorevolezza: la Corona britannica e la Democrazia cristiana. La prima capace di sopravvivere da secoli alle peggiori intemperie, fortemente minata da doppiezze interne, ma ancora salda come collante ideale della nazione; la seconda travolta dall’imprevisto esterno, dall’imponderabile che la rivela incapace di reagire, incartocciata su sé stessa fino ad accettare il sacrificio di uno dei suoi uomini migliori, avviandosi così sul sentiero della fine prima di essere spazzata via da Tangentopoli.

È nella rappresentazione del potere e delle sue dinamiche che le due serie racchiudono alcuni dei loro spunti più interessanti, costringendoci – come spesso accade con il racconto della storia attraverso la finzione audiovisiva – a uno sforzo di discernimento tra realtà e licenza, tra cronaca e immaginazione.

In The Crown, i primi problemi in questo senso sono giunti con la quarta stagione, collocata tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta e che vede l’ingresso nella famiglia reale della giovane impertinente Diana (Emma Corrin, poi Elizabeth Debicki nella quinta) e l’ascesa politica di Margaret Thatcher (Gillian Anderson). La triangolazione tutta al femminile tra questi due innesti e la regina Elisabetta relega in secondo piano i protagonisti di sesso maschile della vicenda, ma soprattutto ci costringe a confrontarci con personaggi e storie recenti, ancora vivi nella memoria collettiva, troppo ravvicinati per osservarli con il distacco che un dramma storico in costume tradizionalmente sollecita.

Funzione sociale

Del resto, la messa in scena è già di per sé una rinuncia al controllo della scena e della propria immagine e questo è ancora più vero nel caso della Corona, un’istituzione che non appartiene solo alla persona che la incarna, ma al popolo tutto. Il corpo della Regina, ma in un certo senso anche di tutti i membri della famiglia reale, incarna la nazione, trae legittimazione da questo scambio continuo, si spoglia di ogni residuo di privato per divenire pienamente pubblico, abbandonando ogni intima individualità.

E, infatti, è proprio nel recupero di una quotidianità autentica, calda e famigliare, che The Crown trova la sua chiave di volta; non è tanto nella storia della Corona o nei rivolgimenti sociali della Gran Bretagna nel corso dei decenni che la serie dà il meglio di sé, ma nel filtrare i grandi accadimenti pubblici attraverso le lenti della monarchia, le sue manie, i suoi talvolta incomprensibili arroccamenti, le idiosincrasie che rivelano la fragilità delle relazioni private. Non è un caso che nell’affrescare la figura di Diana (nella quarta e nella quinta stagione), la serie di Peter Morgan sembri insistere proprio su questa incomprensione di fondo tra la rivendicazione di un’intimità domestica e la funzione sociale svolta dall’istituzione. È nella ramanzina paternalista comminata da Filippo a una spaesata Diana che scopriamo la natura della famiglia reale come “sistema”; è in un dialogo tra gli ormai divorziati Carlo e Diana, mentre si cucinano uova strapazzate (una delle scene migliori di un’ultima stagione virata pericolosamente sui canoni della soap), che emerge tutta questa frattura: la “coppia perfetta” all’esterno, ma fiaccata da un “amore imperfetto” tra le mura di casa, la strada segnata degli eredi al trono che si scontra con l’ancestrale materno («quale madre vorrebbe il proprio figlio al trono?»), l’incapacità di concepire la differenza tra “la famiglia” e “l’uomo che amavo”.

Un’incomunicabilità di fondo tra le due dimensioni che ritroviamo anche in Esterno notte; il film-miniserie di Marco Bellocchio è un lungo viaggio nelle viscere di un’epoca – quella dell’Italia di fine anni Settanta – che comincia a intravvedere gli spiragli di un passaggio dal credo “il privato è politico” al riflusso, in cui i bizantinismi della politica s’infrangono sull’ordinarietà di vite attraversate dal bisogno di affetti e normalità. Molti dei personaggi che popolano l’opera del regista piacentino sembrano caricarsi di questa inconciliabilità latente che diventa oppressiva, portando all’impazzimento e alla morte.

Passionalità

In un paese «dalla passionalità continua, ma dalle strutture fragili», Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, in un segreto colloquio notturno in macchina, si stupiscono di come gli uomini delle rispettive scorte chiacchierino e scherzino tra di loro; il Moro di Bellocchio (a cui Fabrizio Gifuni regala un’interpretazione di grande vicinanza morale, ennesimo segno del nostro vacillare di fronte a una rappresentazione finzionale che assume tratti di estrema prossimità al reale) ci legge un paese più avanti della politica, che si fa meno problemi di quanti se ne facciano i vertici dei partiti e delle istituzioni.

Come in The Crown, anche in Esterno notte sono i personaggi femminili a incarnare al meglio questo contrasto tra pubblico e privato, tra velleità storiche e necessità umanitarie. La brigatista Adriana Faranda (Daniela Marra) è tormentata più dei compagni; nel suo tentativo di persuasione circa la possibile liberazione di Moro si legge non solo una legittima rivendicazione politica, ma il senso di una riconciliazione tra l’ideologia (con le sue derive) e la persona, tra la battaglia e la pietà.

La moglie di Moro (la “dolce Noretta”, magistralmente restituita da una Margherita Buy in stato di grazia) combatte solitaria una battaglia impari contro la Democrazia Cristiana e il “fronte della fermezza”; incomprensibile ai suoi occhi ciò che per la politica è inevitabile, al punto da definire Andreotti “uomo freddo senza pietà umana” e Cossiga possibile affetto da “seminfermità”.

Di nuovo lo scarto tra il calcolo pubblico e il dramma privato, tra le ragioni dello Stato che non vuole legittimare i brigatisti con la trattiva e una misericordia che fatica a farsi voce fuori dai ristretti legami famigliari. Lo stesso Moro, nel colloquio finale con il prete nel covo dei brigatisti, pur consapevole dell’esito scritto della vicenda, si chiede «cosa c’è di male nel non voler morire», abbandonando e spogliandosi definitivamente del corpo pubblico per assumere quello intimo dell’inquietudine più dolorosa e assurda.

Anche l’allora ministro dell’Interno Francesco Cossiga, forse uno dei personaggi più complessi della vicenda Moro, colui che ha incarnato e portato su di sé il peso e il senso della democrazia come comunità tragica, viene rappresentato in questa continua oscillazione tra il ruolo pubblico e la ferita privata, incarnata dal difficile rapporto con la moglie che lo risucchia ogni volta nelle miserie della vita.

Dove Esterno notte eccede nella rappresentazione del potere è nel ritratto caricaturale dei politici di contorno, le seconde e terze file, un esercito di notabili e aspiranti sottosegretari presentati sotto una luce macchiettistica, grottesca, nella più tradizionale delle raffigurazioni del sottobosco; e, allo stesso modo, si immaginano le figure che popolano l’universo vaticano che avvolge Paolo VI (Toni Servillo), altro personaggio di statura morale costretto a muoversi dentro una sorta di regno oscuro, tra segreti, improbabili veggenti e montagne (letteralmente) di soldi.

Nel mettere in scena epoche storiche, personalità e istituzioni differenti calate dentro la complessità dei rispettivi sistemi politici e parlamentari, The Crown ed Esterno notte ci mettono di fronte alla classica “caduta degli dei”, all’avvitamento di strutture anchilosate, alla solitudine spirituale del potere.  

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