23 gennaio 1877. Al Teatro Bol’šoj di San Pietroburgo va in scena la prima assoluta de La Bayadère, il balletto composto da Ludwig Minkus, con la coreografia di Marius Petipa. Quello che Rudolf Nureyev, il “Tartaro volante” riallestì per l’Opéra Garnier di Parigi, poco prima di morire appena cinquantenne, dopo trent’anni di trionfi sulle scene del mondo intero: quella che, ora ripresa da Florence Clerc e Manuel Legris, ha debuttato alla Scala il 21 dicembre, e sarà trasmessa in televisione per la sera di San Silvestro.

Fotocopie sacre

Una storia da grande musical quella di Nureyev, iniziata nel 1961 con la fuga verso la libertà del danzatore ventitreenne, al termine di una tournée parigina del teatro Kirov di Leningrado, nel corso della quale Rudy aveva danzato nel ruolo di Solor, il nobile guerriero innamorato della baiadera.

Fu nell’89, nel corso di una tournée al Kirov ridiventato teatro Mariinskij, che Nureyev riuscì a sottrarre e fotocopiare dall’archivio dove è tuttora custodito l’originale della coreografia della sua giovinezza, cui volle ispirarsi per quella del suo riallestimento per il balletto dell’Opéra.

Alla morte di Nureyev, due mesi dopo, anche San Pietroburgo aveva recuperato il suo nome. Un’epopea individuale che fa da specchio alla guerra dei mondi, al tramonto di due imperi.

Sballo della coscienza

Così a San Silvestro, dopo l’addio del presidente Sergio Mattarella, ognuno potrà godersi il famoso ultimo atto, Il Regno delle Ombre, con l’incontro onirico dei due amanti in un paradiso artificiale suscitato dall’oppio, che Solor si concede, oltre la tragedia e poi la noia terrena, per consolarsi della colpa di aver causato, con il suo tradimento, la morte della baiadera.

Chissà se ognuno sarà, come chi scrive, colpito dalla potenza simbolica di questa falsa catarsi, molto più estatica che onirica nel suo crescendo erotico di ombre bianche: che ci avvincono, trascinanti, fino all’apoteosi, dove la colpa si sublima in perdono e la morte in amorosa, totale resa. Insomma, uno sballo magnifico – e feroce – della nostra coscienza.

Figli di rifugiati

Era un oriente misterioso e vago, alla Salgari, quello di Petipa e Minkus. L’Impero Ottomano in via di disfacimento non cessava di alimentare le voglie rapaci degli altri imperi: russo, asburgico, britannico. Nel 1893 era cominciata, con un iniquo trattato fra i Britannici e l’Emiro di Kabul, la tragedia afgana che dura ininterrotta fino ad oggi.

Torna alla mente il finale del terzo grande romanzo di Khaled Hosseini, E l’eco rispose (2013), dove questa tragedia si snoda attraverso le vite di molte generazioni, dal 1949 al 2010, e che termina in Europa con un sì alla vita – quella degli ultimi nati – forse è Natale – di una generazione di figli di rifugiati.

Il costo della ricerca

Ma il sapore che ne resta dentro è meglio reso dai versi del grande Rumi, il mistico e poeta persiano del XIII secolo, che Hosseini mette in exergo: Ben oltre le idee/di giusto e di sbagliato/c’è un campo. / Ti aspetterò laggiù.

Già – c’è in noi questa insopprimibile esigenza di giustezza – prima ancora che di giustizia. Perché?

La ricerca delle sue fonti, delle fonti di ogni giustezza e della sua domanda, ha il nome di una disciplina altamente specializzata (anche se recentemente pubblicamente ridicolizzata da alcune inopinate uscite ignare di giustezza): filosofia. Ma ogni vero filosofo sa quanto costi questa ricerca. Costa rinunciare al “campo”. Al largo, alla grazia, alla poesia.

Perché quando distinguiamo, definiamo, ragioniamo l’Io non tace. È sempre lì a guidare la barca, dar la rotta, dolersi di ogni sbaglio e colpa, non gli è dato perdono, o abbandono al “campo”.

Il campo è l’Io perduto, felicemente.

Eppure nessuno la perde mai, la domanda di giustezza. Nel campo convergeremo tutti, alla fine: nella vera eguaglianza data agli umani, al cospetto della vita nascente. Di questo ultimo nome di Dio.

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