La Storia è una macchina che genera contraddizioni: può covarle per anni, decenni e persino secoli, ma prima o poi si manifestano. Le contraddizioni dell’illuminismo, ad esempio, come l’idea di un’umanità retta da un solo e unico sistema di valori universali, casualmente quelli della borghesia occidentale. Oppure le contraddizioni del Sessantotto, che predicava la liberazione del desiderio senza tener conto di tutto ciò che nel desiderio c’è di violento e prevaricatore. La Francia, che fu teatro di entrambe quelle rivoluzioni, è oggi anche il tribunale dove vengono giudicate. Violente polemiche la scuotono a intervalli regolari, lacerando l’intellighenzia e rimettendo in discussione i valori fondanti dalla République in generale e della sinistra in particolare. Di solito tutto nasce dall’esplosione di un caso mediatico: l’ultimo è un’accusa di violenza sessuale rivolta al celeberrimo politologo Olivier Duhamel. Come ogni esplosione, la sua onda d’urto finisce per coinvolgere tutti quanti. Ma andiamo con ordine, dal particolare all’universale.

Una stagione di denunce

Ad accendere la miccia è stato, come di regola da qualche anno, un libro autobiografico. Ogni stagione editoriale francese è ormai segnata dalla denuncia di una violenza o dalla confessione di un’infanzia difficile, ideale prosecuzione del #MeToo con mezzi più letterari, quelli della cosiddetta “autofinzione”. A dire il vero la tradizione è antica se pensiamo che data del lontano 2004 il romanzo Niente di grave nel quale Justine Lévy, figlia di Bernard Henry-Lévy, raccontava come Carla Bruni le aveva soffiato il marito. Dove finisce il gossip, inizia la letteratura, parte la denuncia? Se l’anno 2020 verrà ricordato per Le consentement di Vanessa Springora, nel quale l’autrice aveva raccontato come durante la sua adolescenza era stata soggiogata da un uomo molto più anziano di lei, lo scrittore Gabriel Matzneff, il 2021 si è aperto con la pubblicazione di La Familia grande di Camille Kouchner, resoconto di una prolungata serie di abusi su suo fratello tredicenne da parte del patrigno, Olivier Duhamel appunto. La storia potrebbe finire qua se non fosse che Duhamel è un uomo di potere, rappresentante di una certa élite culturale, e che proprio questa élite viene oggi accusata di omertà: da anni girava voce di quegli abusi e nessuno ha mai fatto niente. Soprattutto non ha fatto niente l’università nella quale Duhamel insegnava, la prestigiosa Sciences Po, che ora viene fortemente contestata. Per non aver dato credito a voci di corridoio, su fatti di trent’anni prima, in assenza di un pronunciamento della giustizia? Anche qui la questione è più complessa, e bisogna procedere un altro poco dal particolare verso l’universale, al cuore di quelle contraddizioni che scuotono la cultura francese, su fino al Sessantotto e all’Illuminismo.

La strana parabola della pedofilia

“Godere senza limiti” era uno degli slogan più celebri della liberazione sessuale e qualcuno lo prese davvero alla lettera. In particolare in ciò che riguarda i limiti di età: all’epoca quello contro il sesso tra minori e con minori appariva come un tabù patriarcale e retrogrado. Nel 1977, il quotidiano Le Monde pubblicò una famigerata petizione per chiedere la scarcerazione di tre uomini accusati di relazioni sessuali con tre adolescenti di tredici e quattordici anni: tra i firmatari c’erano intellettuali del calibro di Sartre, Beauvoir, Deleuze, Barthes e alcuni futuri ministri. Negli stessi anni Libération pubblicava articoli pro-pedofilia (“Insegniamo l’amore ai nostri figli”) e addirittura degli annunci di cuori pedofili solitari in cerca di dodicenni disponibili. Il filosofo Michel Foucault chiedeva la depenalizzazione della pedofilia e, in un intervento radiofonico del 1979, criticava l’idea degli psichiatri secondo cui il sesso sarebbe necessariamente “traumatico” per i bambini. Tuttavia tra gli anni Ottanta e Novanta la percezione generale della pedofilia inizia a cambiare, anche per effetto di alcuni terribili casi di cronaca. Nell’ultimo decennio, poi, la questione inizia a intrecciarsi con la sensibilità sempre maggiore sulla questione degli abusi e sui rapporti di potere che determinano il consenso.

Le stesse condotte che prima venivano difese o perlomeno tollerate diventano crimini imperdonabili, e tutti coloro che in qualche modo sono stati coinvolti nella pratica o nella teoria pedofila si trovano a fare i conti, se non con una giustizia ormai prescritta, con il tribunale dell’opinione pubblica. Roman Polanski, processato per aver drogato e violentato una tredicenne nel 1977, passa in pochi anni da regista rispettato a oggetto di boicottaggio. Lo scrittore Guy Hocquenghem, icona della cultura gay parigina morto di Aids nel 1988, si vede rimuovere una targa commemorativa per avere elogiato la pedofilia nei suoi scritti. Mentre è di pochi giorni fa la notizia che l’artista Claude Lévêque avrebbe commesso varie violenze su minorenni: d’un tratto a tagliare i ponti con lui, che ha esposto persino al Louvre, è quello stesso mondo dell’arte che tollerava di vederlo ai vernissage accompagnato da giovani efebi. Così la sinistra degli anni 2020 si è mangiata la sinistra degli anni Settanta, facendo gioco alla destra che se la ride sotto i baffi. Intanto il presidente Macron e consorte fanno profilo basso, non sia mai che qualcuno ricordi che la loro storia è iniziata quando lui aveva quindici anni e lei quaranta: carburante per le teorie cospirazioniste sulle “élite pedofile” che in Francia, come negli Stati Uniti, si diffondono sempre di più.

L’attacco a Sciences Po

Queste polemiche segnalano una profonda crisi nel mondo culturale francese. In effetti a essere rimessi in discussione non sono soltanto i valori della liberazione sessuale, ma anche quelli repubblicani, dalla laicità ad ammenicoli dello Stato di diritto come il garantismo. Insomma il vecchio illuminismo, di cui la Francia si considera come il simbolo mondiale. Una crisi che si ripercuote sui grandi media ma che trova un campo di battaglia ideale nel mondo universitario, dove si affrontano baroni legati alle esperienze della vecchia sinistra libertaria e giovani studenti e ricercatori sensibili all’influenza delle più recenti tendenze americane: studi post-coloniali, politicamente corretto, cancel culture. Quando in gennaio esplode il caso Duhamel, alcuni movimenti studenteschi parigini colgono al volo l’occasione per attaccare Sciences Po, università simbolo della riproduzione delle élite francesi e quindi complice dei suoi crimini. Maschio, bianco, cisgenere, l’identikit corrisponde.

C’è però un’ironia nei corsi e ricorsi storici: il radicalismo venuto d’oltreoceano nasce anche come rilettura di contributi provenienti dalla filosofia francese degli anni Sessanta, la cosiddetta French Theory, in particolare autori come i già citati Foucault e Deleuze che hanno pazientemente “decostruito” i fondamenti ideologici della modernità. Il punto più controverso, soprattutto a sinistra, è l’importanza che questi movimenti danno alla “razza”. Dopo decenni in cui ci eravamo convinti che l'universale avesse definitivamente regolato i conti con il particolare, chi mai potrebbe mettere in discussione che esiste una sola umanità? Questa volta a farlo non sono gli oppressori bensì gli oppressi, decisi a svelare le “imposture dell’universalismo”, dal titolo di un libro recente di Louis-Georges Tin. Ricordiamo che nel passato della Francia non ci sono soltanto l’illuminismo e il Sessantotto, ma anche il colonialismo.

Il problema post coloniale

È difficile dar torto a chi denuncia nel sistema culturale francese un razzismo e un classismo strutturali, nonché la permanenza più discreta di comportamenti maschilisti. Omertà e corruzione sono all’ordine del giorno nella buona società parigina. E un “privilegio bianco” indubbiamente esiste nei paesi occidentali. Ma il maschio bianco qual è chi scrive queste righe intuisce che c’è qualcosa di non propriamente sano in reazioni come la censura, un anno fa, di una rappresentazione di Eschilo alla Sorbona per via del ricorso alle tradizionali maschere del teatro greco in quanto ricorderebbero le blackface usate in America per umiliare i neri. Gli ultimi universalisti, quei repubblicani che in Francia tutto sommato costituiscono ancora la maggioranza, non se ne stanno certo a guardare: pochi giorni fa il magazine di centrodestra Le Point ha sbattuto in copertina “I nuovi fanatici” che vogliono abbattere le statue e dettare legge nelle università, ma il biasimo sembra essere trasversale.

In luglio, la filosofa Elizabeth Badinter denunciava dalle colonne dell’Express addirittura un “nuovo razzismo” (al contrario, secondo lei) mentre già due anni fa Marianne dedicava un dossier all'offensiva dei «maniaci della razza, del sesso, del genere e dell'identità» che «importano il politicamente corretto dagli Usa», «s’infiltrano nelle università, nelle associazioni e nei sindacati», «fanno proibire le opere d’arte» e «vogliono farla finita con l’universalismo». Macron ha denunciato congiuntamente le tendenze al separatismo e la nefasta influenza degli studi post-coloniali sulle università francesi mentre Marine Le Pen si presenta oramai come custode dei veri valori repubblicani, completando la sua metamorfosi da erede di un partito neo-fascista a icona gollista.

L’ora della verità

Così si radicalizza la polarizzazione tra universalisti e identitari, ed è una pessima notizia: perché la società liberale si basava precisamente sull’equilibrio tra queste tendenze divergenti. Ma il mondo è cambiato e come dicevamo sono emerse tutte le contraddizioni troppo a lungo sepolte, assieme a tante ingiustizie dimenticate. Le vicissitudini di Duhamel, Polanski e Lévêque ricordano che, come in Shakespeare e in Dostoevskij, i crimini tornano sempre a galla e che presto o tardi si finisce col pagarli. Un crimine impunito è una ferita per tutta la società, una piccola infezione da curare prima che faccia marcire il corpo intero. È per evitare questa decomposizione che la Francia fa oggi i conti con il suo passato, sperando in qualche modo di riuscire a fare coesistere quel passato con il suo futuro.

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