Lucrezio ha accompagnato tutta la mia vita, dalle prime letture ginnasiali alla tesina di maturità alle pubblicazioni universitarie, fino alla traduzione integrale del De rerum natura, uscita l’anno scorso nello Specchio Mondadori. Di questo lungo sodalizio parleremo, per la Festa di Radio3 a Trani, il 10 giugno con Susanna Tartaro.

Racconterò il mio legame con il poeta latino e Viviana Nicodemo leggerà alcuni brani del poema, raccolti all’insegna di tre grandi temi: la natura, la condizione umana e l’amore.

Solitario

Ma chi è Lucrezio? Possiamo riassumere in poche righe il suo insegnamento e la sua personalità? Impresa difficile, ma ci proviamo.

Lucrezio è un poeta aspro, polemico, intransigente – e in questo è unico tra i poeti latini, che tendono spesso a una humanitas colloquiale – e appartiene alla razza dei grandi solitari, come Nietzsche, come Giacomo Leopardi o Dino Campana, uomini che alla poesia hanno chiesto tutto e si sono assunti il rischio di questa domanda totale e hanno fatto della poesia una questione di vita o di morte: non quindi un gioco, un’evasione o un intrattenimento ma una parola decisiva, una parola da cui dipende il nostro destino.

Di Lucrezio non sappiamo nulla. Non sappiamo dove è nato e dove ha vissuto è cosa ha fatto nella sua vita. E questo è curioso nel primo secolo avanti Cristo, il secolo d’oro della letteratura latina, il secolo di Virgilio, Cicerone, dei lirici, un secolo ampiamente documentato dalla critica e dalla storiografia.

Ma non c’è troppo da stupirsi. Lucrezio è un uomo isolato, un uomo fuori dai giochi politici e culturale del suo tempo, lontano dai circoli politici e letterari, dall’eleganza dei neoteroi o dall’eloquenza degli oratori, dall’attenzione cronologica degli storici. Lucrezio non è al passo con i tempi. Non parla con i poeti contemporanei, non entra nel calderone mondano del “dibattito”.

È un uomo fuori tempo, fuori modo, fuori luogo. Non si rivolge ai vicini di casa ma agli antichi, ai grandi sapienti greci che si sono interrogati “peri fùseos”, sulla natura delle cose, appunto.

Parla con Eraclito, Parmenide, Empedocle e anche con Epicuro, certo, parla con coloro che sono stati la sorgente e l’origine del pensiero antico e hanno lanciato una staffetta poetica lungo i secoli, hanno fatto viaggiare un testimone, un bastoncino di legno che passa da una mano all’altra e da una mente all’altra.

Un nuovo punto di vista

E Lucrezio non è da meno. Ha afferrato al volo questo testimone ed è diventato il poeta cosmico per eccellenza della letteratura latina, l’unico che ha saputo misurarsi con i giganti del passato. E rispetto a loro ha forse una caratteristica che, a mio parere, lo rende ancora più moderno. E questa caratteristica è il pathos.

È la capacità di entrare nei chiaroscuri dell’anima, di esplorare le zone più buie, inospitali, disabitate, vertiginose dell’esperienza umana. È un poeta con una forza allucinata vicina alla letteratura del nostro tempo. Tutto il poema di Lucrezio, ben lontano in questo dalla calma impassibile di Epicuro, è percorso da un tono concitato, a volte onirico, al limite dell’allucinazione.

Tradurre Lucrezio è stato scontrarsi con ostacoli e barriere di ogni genere, come è naturale. Innanzitutto un problema metrico, poiché l’esametro latino contiene strappi, cesure, interruzioni che non appartengono alla nostra lingua.

E poi un problema lessicale, dal momento che la lingua di Lucrezio presenta numerosi arcaismi e parole composte che vengono da Omero e da Empedocle. Ma il tentativo è stato quello di sottrarre Lucrezio alle traduzioni scolastiche che tutti noi ricordiamo, a quel lessico vecchio, immobile, stagnante, con le sue “beltà”, le sue “brame” e i suoi nomi antiquati… traduzioni che propongono una sintassi italiana come calco di quella latina.

No, era necessario un nuovo punto di vista, che osservasse Lucrezio da vicino e insieme da lontano, mantenendo vivo il guizzo bruciante della nostra lingua attuale e il fuoco antico che alimenta la lingua di Lucrezio, i suoi riti, le sue infinite ripetizioni, che non devono mai essere eluse abbellendole con un gioco di sinonimi ma devono essere mantenute per indicare la natura ossessiva della sua ispirazione. E insomma si trattava di iniziare un nuovo corpo a corpo con Lucrezio, la sua opera, il suo tempo, il suo desiderio e il suo destino.

Il significato di tradurre

Perché forse tradurre significa questo. Significa contrastare la finitezza di un’opera, farle oltrepassare le contingenze linguistiche della sua epoca e aggiungere una tappa al suo cammino, al suo viaggio storico e spirituale.

Significa immergerla nella nostra lingua, diventare il guardiano della soglia, come scrive Antonio Prete, vigilare che sia fruttuoso il passaggio da un’epoca all’altra, evitare ogni trasposizione automatica della frase e trovare una nuova sintassi per il verbo o l’aggettivo e insomma trovare una nuova posizione per le singole parti del discorso, cercando però di mantenere ferma l’essenza della parola latina, il suo profumo, la sua particolare punteggiatura, la sua musica, le intonazioni della sua voce, la vibrazione cangiante dei suoi significati. Traducendola, insomma, ossia introducendola nell’attualità della nostra lingua, permettendole di rifiorire.

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