Scriveva Guido Ceronetti a proposito di Cristina Campo: «Queste Cose Scritte non contengono la minima, la più impercettibile traccia d’impostura».

Per Ingeborg Bachmann deve dirsi lo stesso: proprio come Campo – benché da una posizione politica all’antitesi – seppe scagliarsi inclemente contro il conservatorismo del suo tempo: di questo sferzò il fascismo sottile, quotidiano, pulviscolare, dunque impercettibile e incapace di autocritica. Il fascismo che – ella asseriva – dopo il 1945 non s’era certo dileguato solo perché l’omicidio non assicurava più una medaglia d’onore. Malgrado ciò, le sue opere finirono vittima delle forze contro cui si erano scagliate.

I suoi contemporanei preferirono rilevarne la complessità lirica, la delicatezza, le primizie lessicali. Come affermò Heinrich Böll, il loro modo di ucciderla fu trasformarla in un’icona.

La raccolta

Certo, Bachmann è stata da tempo “canonizzata” come una delle principali scrittrici di lingua tedesca e tra le voci liriche più influenti del Novecento. Ma in lei c’è di più, come si trova nella recente e felice raccolta di testi, pubblicata da Adelphi col titolo A occhi aperti, a cura di Barbara Agnese. Nata a Klagenfurt nel 1926, si addottorò in filosofia e si produsse come poetessa, saggista e scrittrice di testi per la radio.

L’entusiastico riscontro fu immediato. Iniziò quindi un sodalizio artistico con uno dei più insigni compositori del Novecento, Hans Werner Henze – relazione assai poco codificabile, la loro, segnata dall’impossibile desiderio di Bachmann per Hans Werner, convintamente gay.

Tra gli anni Sessanta e Settanta abitò a Roma, che visse innanzitutto come dimensione psichica, in cui nulla va mai del tutto perduto e dove si può fare esperienza di una totalità dell’umana memoria.

In A occhi aperti c’è molto di significativo. Il celebre testo su Ludwig Wittgenstein, il genio filosofico più penetrante del Novecento, compendia la straordinaria e concisa lucidità di Bachmann là dove combina la chiarità d’idee con la pregevolezza dello stile. D’altro canto, «tutto ciò che si sa […] può dirsi in tre parole», glossa con riferimento allo scrittore austriaco Ferdinand Kürnberger. E in meno di venti paginette, coglie l’essenza di questioni che ingombrano lunghi scaffali di biblioteca.

Ma anche quando esce dal campo del rigore logico e si colloca nello spazio più rarefatto della poesia, la sua lingua è sempre tesa a identificare i confini del mondo, «svelato e pensato con esattezza», benché maculata dell’utopica pulsione a collocarsi sempre un poco oltre i limiti del nostro intelletto.

La preveggenza su Bernhard

Ma se si volesse dare ristoro alla Bachmann di cui si diceva in apertura, si raccomanda lo scritto su Thomas Bernhard, che abbaglia per facoltà di preveggenza – forse perché, come i più grandi, la parola di Bachmann sa farsi non-contemporanea, dunque contemporanea di qualsiasi evento nella storia. Proprio sulla non-contemporaneità di Bernhard insiste l’autrice: corpo estraneo a una letteratura che già allora si faceva nobile intrattenimento.

Così, per obliquo, Bachmann affila gli strumenti acuminati della critica sociale camuffata da belle lettere: «Dato che tutto viene scovato, nulla rimane inedito e che c’è una lode per tutto, allora quando si parla di libri e di critica la causa dei guai andrà rintracciata altrove da dove comunemente la si cerca, e la miseria della critica, che si dibatte in mille problemi, potrebbe dunque essere dovuta al fatto che essa sia priva di ogni senso della qualità». E se superfluità ed eccedenza, oltre a quel costante senso del superato, segnano la letteratura del nobile intrattenimento, il marchio dei libri di Bernhard è «l’essere indispensabili, necessari, ineluttabili».

Necessario, ineluttabile e senza alcuna impostura è lo stile di Bachmann, trattenuto in un rapporto perfetto con gli oggetti che lo circondano; implacabile, intransigente, eppure dotato di una grazia che lambisce la sensualità. Ella rientra dunque tra quegli eretici, da trar fuori dall’archivio di storia della cultura, che ancora e senza posa ci esortano a superare i limiti del nostro linguaggio, dunque del nostro mondo.

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