La notte in cui Troia bruciava, un figlio rischiò la vita per portare in salvo il padre, un vecchio invalido che non voleva sopravvivere; “Lasciami qui a morire con la mia città”, gli aveva detto, “perché il futuro non mi appartiene più”. Eppure quel figlio (si chiamava Enea) decise di issare sulle spalle suo padre Anchise e portarlo con sé.

Un atto che continua a commuovere chiunque legga l’Eneide, come si commosse Giorgio Caproni quando scoprì tra le rovine bombardate di piazza Bandiera, a Genova, una tormentata statua barocca in cui un Anchise smangiato dalla sofferenza si aggrappa a Enea che lo trasporta come un fagotto, mentre accanto cammina il piccolo Ascanio. Questo gruppo fece dire a Caproni: “Enea sono io, siamo tutti”. Quell’uomo solo, vinto, che fugge dal male insieme a un vecchio invalido e a un figlio spaventato e non sa che cosa che lo aspetta, non è ancora il pio Enea, né il fondatore della gente Giulia, né l’uomo del destino: è solo un profugo che si avvia a una vita da straniero. Ma suo padre sarà con lui, e questa presenza, incredibilmente, gli darà la forza di vivere.

Quello che portava sulle spalle, un fardello ossuto di uomo ormai al confine della vita, non era però soltanto un padre, ed Enea lo sapeva bene: era la memoria della sua gente e quindi anche di lui stesso. Il presente non basta e nemmeno il futuro, ci dice Enea; occorre anche il passato, perché chi non ne conserva la sua memoria smarrisce con essa la propria identità, e il padre è appunto l’anello primo di questa catena che lega un uomo alle sue origini.

Chi guarda da una barca non vede il fondo dove l’ancora si aggrappa, ma sa che un ancora c’è, là sotto, da qualche parte, ed è lei che impedisce di andare alla deriva; chi guarda verso il passato non conosce tutti i suoi antenati, ma sa che ognuno di loro forma uno degli anelli della catena a cui la vita di tutti si aggancia, e che attraverso questa catena l’identità individuale diventa collettiva.

Senza padre

Di quella famosa fuga notturna esistevano versioni persino più edificanti; alcuni raccontavano che, quando Troia fu conquistata, i Greci, ammirati per il coraggio di Enea, gli consentirono di andarsene portando con sé la cosa che aveva più cara. Senza una parola Enea entrò nella casa devastata e ne uscì portandosi sulle spalle il padre Anchise, che a sua volta portava tra le braccia i Penati. Non il figlio, non la moglie, non l’oggetto più prezioso che gli ricordava le sue glorie: Enea scelse la cosa in apparenza meno utile, un vecchio a cui restavano pochi anni da vivere; eppure non voleva perderlo. Perdere un padre, o non trovarlo – e può accadere che non lo si trovi nemmeno quando gli si vive accanto – è, come sappiamo, una delle esperienze psicologiche fondamentali della vita di ogni essere umano, antico o moderno.

Neppure Edipo era senza padre: ma suo padre Laio non voleva essere tale e perciò espose il figlio neonato a morire su una montagna. Narcisismo sfrenato, crudeltà, paura, un impasto di sentimenti brutti che quell’uomo portava dentro di sé: Laio rifiutò di accettare che il figlio prendesse un giorno il suo posto nella vita. Non voleva essere sostituito, non voleva lasciare nulla a nessuno, non voleva essere un anello della catena.

Si credeva immortale, oppure pensava che tutto sarebbe finito con lui, il che in fondo è un altro modo di pensarsi immortale, nella morte assoluta; invece il compito del padre è di accompagnare il figlio per un tratto del cammino e poi lasciarlo perché il giovane prosegua la sua strada. Laio no. Non volle Edipo, e così questi crebbe lontano, amato da un uomo che non era suo padre, ma si comportò come tale.

Edipo ebbe quindi due padri: uno buono che lo crebbe, uno crudele che aveva tentato di ucciderlo, come del resto ogni essere umano ha una parte luminosa e una buia nella sua anima. Questo padre crudele e terribile sembrava smarrito nel tempo e nello spazio, eppure ricomparve.  Ed è una ricomparsa altamente simbolica, perché dice che questi legami sono inevitabili, in maniera conscia o inconscia.  

La violenza muta

Un giorno Edipo, il trovatello, incontrò il suo vero padre dove s’incrociavano tre vie e quello che accadde allora tutti lo sanno: Laio lo colpì ed il figlio lo uccise a bastonate, in modo bestiale. A quell'incrocio parlavano la violenza, la rabbia, e più di tutto la paura. Una corrente di odio si sprigionò istintivamente tra i due viandanti, come avviene che i due capi di un elastico si possano tendere e allungare, ma poi è inevitabile che scattino uno verso l’altro.

Così padre e figlio si precipitarono l’uno contro l’altro come se l’aria attorno fosse appestata. C’è un aspetto in questo episodio che fa pensare: l’assenza di linguaggio. Edipo e Laio non si parlarono allora, né mai una parola fu scambiata tra quel padre e quel figlio e in questo non detto si aprì – come si apre sempre, quando il linguaggio manca – lo spazio del sangue che viene versato. Edipo in realtà, anche se non lo sapeva, portava Laio non sulle spalle, come quella notte Enea, ma dentro la parte più oscura e selvaggia della sua anima: un fardello ben più pesante da reggere di quanto non fosse il vecchio Anchise aggrappato alle spalle di Enea.

In quel momento Laio ed Edipo erano fuori dalla civiltà, imprigionati nella sfera più criminale e selvaggia dell’essere, perché la pietà dei figli verso i padri, e dei padri verso i figli, è un valore fondante della civiltà. Pietas: Enea era per eccellenza il pius.  Un valore che si sta affievolendo?

Il padre, si direbbe, non è più deputato, oggi, a trasmettere i valori fondamentali della cultura, come invece fece quel padre di cui parla Omero che al figlio Glauco, in partenza per la guerra, consegnò le armi dicendo: “Ricordati di essere sempre il primo e non svergognare la generosa razza dei tuoi avi”. Così eravamo noi, così devi essere tu, gli dice. Questo padre consegna al figlio non solo l’armatura, ma un dover essere.

Dopo secoli di patriarcato, la società in cui viviamo sembra vada sostituendo alla figura normativa del padre una figura debole, per non dire quasi labile. Ma questo non cambierà un dato fondamentale dell’esperienza individuale, perché un padre sempre ha da esserci, dentro o fuori, e se non c’è il figlio lo cercherà sempre. Come scrisse Freud nella seconda edizione dell’Interpretazione dei sogni (nel frattempo, suo padre era morto), “la morte del padre è la perdita più decisiva nella vita di un uomo”.

Trovare un padre e perderlo sono però le due facce della stessa medaglia. In questo sta la tragica ambivalenza di un rapporto in cui il figlio deve andare avanti abbandonando il padre, per essere se stesso, ma il padre, in un modo o nell’altro, chiede di essere portato sulle spalle dal figlio o almeno di potergli trasmettere l’armatura.

Il legame più forte dell’odio

La mitologia greca ci sembra tanto vicina anche perché presenta in forma narrativa le forze fondamentali che pulsano da qualche parte nel fondo dell’anima di ogni essere umano. Perciò il rapporto tra figli e padri – più ancora, forse, di quello tra figli e madri – assume un valore esemplare in mille modi. Ci sono padri umani e padri divini, ma le modalità in fondo sono simili. Si racconta, per esempio, che all’inizio del mondo esistettero padri che cercarono di uccidere i figli e figli che assalirono i padri: Crono divorava i suoi nati per timore di perdere il potere, sinché non fu detronizzato da Zeus.

E se Crono cercava di modificare il fatale sviluppo del tempo eliminando i suoi figli, Zeus divenne invece “il padre degli uomini e degli dèi”. Un civilizzatore, un fondatore di leggi: questo, almeno, era lo Zeus delle origini, ben lontano dal gioioso amatore eternamente adolescente di cui parlano, per esempio, le Metamorfosi di Ovidio, il dio libertino che si diverte a sedurre fanciulle e a trasformare le loro forme a suo capriccio.

C’è un episodio, nella letteratura antica, uno dei passi più belli e alti che siano stati mai concepiti, in cui il rapporto tra padre e figlio prende la forma di una norma universale.

Nell’ultimo canto dell’Iliade s’incontrano un padre e un figlio, anche se non c’è nessun rapporto di sangue tra loro: ma avverrà che quel figlio adotti quel padre. Il vecchio Priamo entra nella tenda di Achille per supplicarlo almeno di rendergli il corpo del figlio Ettore, che è stato massacrato e del cui cadavere Achille, nel suo odio, fa scempio ogni giorno. Priamo si getta ai suoi piedi e gli bacia le mani: “Guarda”, gli dice, “chi altro fra gli uomini oserebbe fare quello che sto facendo io? Portare alle labbra e baciare le mani dell’uomo che ha ucciso i miei figli?”.

In quel momento Achille, mentre guardava gli occhi cerchiati di rughe e la testa bianca di Priamo, vide una cosa che non aveva mai visto: il viso di suo padre Peleo, le stesse rughe intorno agli occhi, lo stesso sguardo triste, gli stessi capelli bianchi.

Ai suoi piedi in quel momento non c’era Priamo che gli abbracciava le ginocchia, ma Peleo, che non avrebbe più rivisto, come non avrebbe più rivisto Patroclo e tanti altri che erano scomparsi, e dietro a ognuno di loro c’era un padre e una madre che soffrivano. E così, guardando Priamo, che piangeva tutto il suo dolore per un figlio, comprese che tutti gli esseri umani, amici e nemici, sono legati nello stesso irrimediabile intreccio, tutto il gran dolore del mondo, la vita che passa senza un’apparente ragione, la tragedia di esistere, la solitudine di ogni essere umano quando arriva il dolore.  

Vedere il dolore degli altri significa riconoscere il proprio e dare un senso a ciò che sino a quel momento non lo aveva. Allora (dice Omero) nel cuore di Achille nacque una gran voglia di piangere il padre.

Prese il vecchio Priamo per mano e lo fece alzare, lo abbracciò e scoppiò a piangere; le loro lacrime si mescolavano cadendo sulle vesti. Intanto ognuno pensava al proprio dolore.

Qualcosa unì, in quel momento quei due nemici, un figlio e un padre: un legame che li fece sentire per una volta, davvero più grandi, lontani dall’eroismo dei guerrieri e più vicini all’essenza migliore dell’essere umani.

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