Angela Chianello è la signora palermitana diventata famosa per l’improvvida affermazione «qua non ce n’è còviddi» pronunciata quest’estate sulla spiaggia di Mondello; ora si è pentita, canta su tiktok una canzone-palinodia in cui si disinfetta le mani; è ormai una diva social, è stata dalla D’Urso ed è entrata nella scuderia di Lele Mora, come informa il suo account Instagram.

Si è anche rivelata una donna simpatica, dalla vita non facile e tutta cuore per la famiglia; ma all’inizio la sua frase è diventata un tormentone che si è diffuso viralmente perché faceva ridere.  

La forma potente del comico

Il comico è una forma potente che permette di affermare negando: coloro che hanno messo in musica quella frase su un ritmo rap, o l’hanno stampata su una maglietta, e tutti quelli che condividevano il video, ovviamente volevano prendere in giro la signora ma nello stesso tempo sfogavano il loro desiderio infantile, regressivo, illogico, che davvero il Covid non ci fosse.

A un livello di maggiore influenza sui destini del mondo, ho l’impressione che la stessa cosa stia accadendo con Donald Trump. I suoi lati comico-grotteschi sono indubbi, già David Letterman in tempi non sospetti ironizzava su «quello strano animale che porta sulla testa», poi c’è stata la crassa ignoranza evidenziata nei tweet, poi lo spassoso errore di location al Four Seasons Total Landscaping e ora un’ostinazione da bambino che fa i capricci, nel negare l’evidenza.

Qualche giorno fa ha dichiarato che, se i Grandi Elettori sceglieranno Biden, lui se ne andrà dalla Casa Bianca; ma molti sognavano di vederlo aggrapparsi alla mobilia e gettarsi a terra, trascinato fuori a forza dagli agenti federali. «Sarebbe da morire dalle risate, se non fosse tragico».

E’ quello che accade al comico, quando il contesto traduce nell’atrocità dei fatti l’aggressività in esso sempre latente (aggressività politica, o sessuale, o contro le responsabilità dell’età adulta, a sentire Freud); quando qualcuno ci racconta una barzelletta sulla Shoah, o se leggiamo una freddura sui tutsi detta alla radio poco prima del genocidio in Ruanda, o ricordiamo l’episodio farsesco del Don Giovanni di Byron in cui durante la presa di una fortezza le zitelle salgono sugli spalti chiedendo speranzose «Sono già cominciati gli stupri?», il sorriso ci muore sulle labbra.

E ci vergogniamo di condividere, anche per un solo attimo attraverso il comico, qualcosa che la nostra coscienza reputa odioso. Trump che a ogni conferma della propria sconfitta ripete come un mantra «ho vinto» somiglia all’avaro di Molière che, al servitore che gli mostra le due mani vuote a riprova di non avergli rubato nulla, intima «mostrami le altre». Com’è assurdo, ma insieme com’è inconsciamente attraente, questo assurdo!

Dai romanzi alla condanna del dissenso

Mark Doten in Trump Sky Alpha immagina (o meglio immaginava nel 2018) che il Presidente, a guerra nucleare da lui scatenata in corso, organizzi feste sfrenate su un suo dirigibile Zeppelin dove si servono astici da tre chili col marchio ‘Trump’ impresso sulla coda; il mondo è ormai ridotto a un ammasso di rovine ma il Presidente, come un nuovo dottor Stranamore, celebra il proprio trionfo con un delirante discorso.

Qui il grottesco è talmente esibito che l’identificazione è relegata a un infimo recesso di crudeltà fiabesca (non ci siamo forse riconosciuti nell’Ubu Re di Jarry?), ed è certamente impallidita da quando è tramontata l’ipotesi di un secondo mandato.

Ma nella realtà i dittatori e i leader sopra le righe (come in letteratura i malvagi spettacolari) esercitano un grande fascino, come si sa, e certe posture comiche si bruciano nell’entusiasmo delle masse (o nel segreto assenso della pagina).

Trump ha perso ma non di molto, e a votarlo sono stati soprattutto i ceti meno culturalmente avvertiti; se nel 1941 per fermare l’America First Committee servì Pearl Harbour, ora forse si potrebbe dire che è servita una pandemia.

Il fascino del Trump-winner (quando lo era, o almeno lo appariva), il basso appeal dell’”uomo con le palle” ha agito a lungo anche tra gli operatori di Wall Street: era il 1991 quando il protagonista di American Psycho di Bret Easton Ellis (ovvero Patrick Bateman, lo yuppie laureato ad Harvard e appassionato di glamour che alla fine si rivela un freddo torturatore omicida) eleggeva Trump a proprio idolo.

Quasi trent’anni dopo Easton Ellis è tornato su Trump con Bianco, il suo ultimo romanzo; ma stavolta parlando della psicosi antitrumpiana che travolse la sinistra democratica dopo le elezioni del 2016: Madonna che avrebbe voluto far saltare la Casa Bianca, la stella di Trump su Hollywood Boulevard vandalizzata con la scritta ‘Putins Bitch’, la fake news di un fantomatico video in cui Trump avrebbe urinato su due prostitute quattordicenni; «non parlar male di Trump», scrive Easton Ellis, «era ragione sufficiente per essere ripudiati dagli amici e perfino dai parenti»; si era diffusa, in una certa parte della sinistra, «un’epidemia di superiorità morale», molti minacciavano di trasferirsi all’estero.  

All’estero si trasferisce in effetti Eva, la protagonista dell’ultimo romanzo di David Leavitt, Il decoro. Eva è una signora di Park Avenue, sedicente scrittrice, con una casa di campagna in Connecticut; il romanzo inizia con una sua battuta rivolta agli amici il sabato dopo le elezioni: «Vi andrebbe di chiedere a Siri come assassinare Trump?», poi compra casa a Venezia perché non può respirare la medesima aria di quel “demonio incarnato” di cui non consente nemmeno che venga pronunciato il nome.

Intorno a lei si muove una fauna di arredatori omosessuali, direttrici di riviste di moda, parassiti dell’alta società che oscillano tra orrore e voglia di buttarla in ridere («quella storia del prendile-per-la-passera… se fosse stato dei Monty Python saremmo morti dalle risate»); il marito, più moderato e ragionevole, portando fuori il cane fa amicizia col vicino, un brav’uomo che invece ha votato Trump perché spera nel taglio delle tasse.

Il marito è favorevole al femminismo al punto da indossare il Pink Pussyhat (salvo sentirsi rinfacciare che quel cappello a vulva è razzista in quanto rosa), ma quando la moglie si trasferisce in Italia lui ne approfitta per tradirla.

Nel libro il ridicolo cade soprattutto su Eva e per le leggi del comico vien quasi voglia di ammirarla quella sua opposizione così ingenua, drastica e autolesionista.

Sono solo romanzi, si dirà. Ma quando Easton Ellis lamenta che si stia affermando «un nuovo tipo di progressismo, che censura e punisce di sua iniziativa le voci dissenzienti», e teme che tra le due parti in conflitto si stia allargando «un Gran Canyon che nessuno prova ad attraversare», e crede che ciò sia legato al fatto che «ormai stiamo diventando incapaci di tollerare nella nostra mente due idee contrastanti», ebbene a quel punto è chiaro che perfino dalla letteratura si può imparare qualcosa.

Trump probabilmente non agirà come un antieroe letterario, non si farà portar fuori a braccia dalla Casa Bianca né scatenerà una guerra civile, ma punterà sul dividere in due il Paese nei tempi lunghi, sostenendo la favola della “vittoria negata”. Si formeranno due fazioni l’una contro l’altra armata (non solo negli Stati Uniti) che si daranno del ladro e dell’incivile infamandosi e ridicolizzandosi a vicenda.

La democrazia americana è troppo ben strutturata, ha troppi pesi e contrappesi per essere in pericolo; ma sia là che qui da noi (dove i pesi e contrappesi sono un po’ meno solidi) non sarebbe male ricordare che sotto ogni esecrazione si nasconde un fascino, e che il regalo maggiore che i democratici potrebbero fare a un avversario come Trump sarebbe di trincerarsi dietro una supposta superiorità e dietro l’arroganza dello status quo, avvalorando il fanatismo pro-sconfitto come una forma di resistenza, o addirittura di riscossa degli oppressi.

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