«Mi fa incazzare, mi ride in faccia, la odio, parla troppo, mi fa perdere il controllo, fanno tutte così, prima carine e gentili poi fanno quello che vogliono, ti prendono per il culo, per forza che poi uno si incazza, e guarda che io la amo tanto, da morire la amo, non posso stare senza di lei, mi ammazzo piuttosto, ha detto che vuole andarsene, non può farmi questo, magari ha un altro, adesso che lavora, avrà qualcuno vedrai, ma poi con quelle troie delle sue amiche, con le loro idee, sono libera mi ha detto, non puoi comandarmi, non faccio quello che vuoi tu, ma se non sa neanche parlare, è una cretina, ho ancora le chiavi, so quando esce, mi scoppia il cervello, dopo tutto quello che ho fatto per lei, non può farmi questo, la ammazzo se non si calma, se non torna com’era…».

È la voce di un uomo immaginario, ma di uomini che parlano così se ne incontrano tanti, da così a peggio. Ho passato un anno a raccogliere le loro parole e a domandarmi: qual è la lingua che usano per dire del loro amore? E perché le parole dell’amore sono accanto a parole che descrivono gesti violenti, atteggiamenti umilianti, oppressivi, pieni di odio. Perché parole della violenza raccontano storie d’amore?

Mi interessano le narrazioni perché nelle parole ci sono i nostri modi di guardare le cose, di vedere le persone, il nostro modo di porci di fronte al mondo, quindi di affrontare ogni tipo di esperienza intima, personale, pubblica e sociale.

Condannare e salvare

Comunemente un uomo che uccide una donna è definito: carnefice, ex, pazzo di gelosia, sconvolto, preso da un raptus, fuori di testa, gesto estremo, non ci ha più visto, accoltella, spara, strangola, violenta e sgozza, è stress, depressione, follia, rifiuto, tempesta emotiva. L’accusato ha detto: Ho solo sparato a mia moglie.

Un linguaggio che è un meccanismo ben oliato che condanna e al contempo salva, giustifica, legittima, scagiona, riduce le pene, e prima ancora non allontana quell’uomo, non lo crede il solo colpevole, lo reputa esasperato pazzo, ubriaco, geloso, un meccanismo narrativo che favorisce il punto di vista di chi agisce, per cui siamo portati a prendere le sue parti, a capirlo, a non condannarlo, a provare pena, pietà.

Quanti di voi, voi uomini, intendo, provano rabbia, orrore, ascoltano le donne credendo alla loro versione, vedendo la loro paura, il loro terrore, danno importanza alle loro parole, senza minimizzare, prendendo sul serio la loro denuncia di minaccia di morte senza archiviarla per dieci, venti volte. Quante donne si sentono non credute, non prese sul serio, perfino in colpa, come se qualcosa del loro racconto, del loro modo di essere, fosse complice, corresponsabile, se non del tutto responsabile quindi colpevole (Processo per stupro è un documentario del 1979: dovrebbe essere visto nelle scuole, è disponibile su YouTube).

Sono stati gli uomini

Un’aula di giustizia non è un luogo del giudizio diverso da quello della società e quindi della nostra esperienza personale: difficilmente ci troveremmo di fronte uno sguardo meno maschilista, cattolico, familistico. Uomini, e spesso donne, parlano di donne che subiscono violenze di ogni genere, che vengono uccise orribilmente, con gli stessi aggettivi che userebbero per i loro persecutori, esecutori: manipolatrici, opprimenti, esasperanti, maniache, narcisiste patologiche, calcolatrici, egoiste, false, aggressive, manesche, vendicative, arroganti, colleriche, pazze, isteriche, stronze, troie, puttane, come se questo loro modo di essere, vero o presunto, fosse una ragione sufficiente a farle fuori. Abbiamo sempre bisogno che incarnino la femmina cattiva, quella che noi riteniamo tale perché non conforme allo stereotipo della cosiddetta femminilità, il grande bluff della storia: donne intelligenti chiamate pazze, donne sapienti finite sul rogo, donne sessualmente libere messe alla gogna se non uccise.

Ma a chi appartiene questa narrazione? Chi ha fatto alle donne questo bel servizio? Vogliamo finalmente dirci che sono stati gli uomini? Certi uomini, certo, ma quanti sono? E perché oggi non si mettono a ripensare la loro narrazione colonial-sessista che li informa e informa la società patriarcale bianca che continuano ad abbracciare con lo stesso atteggiamento mentale, la stessa secolare idea di supremazia sulle donne, senza mai fare i conti col potere, con la libertà, col diritto a una buona vita, con corpi che possono mutare, volersi soli o insieme ad altri, seduttivi o no, riproduttivi o no, produttivi o no, liberi anche di non essere piacevoli, desiderosi di aderire in tutto al desiderio di chi si ama o in nulla senza rischiare di essere uccise.

Riflettori sulla vittima

Come raccontare un femminicidio senza il corpo sorridente dell’assassinata, la sua faccia piegata di lato in qualche social, i suoi capelli, la sua foto insieme all’uomo che la ucciderà, prima in una posa sensuale, ammiccante, poi ripiegata su sé stessa, accovacciata, rannicchiata, corpo fragile, impaurito, la faccia tumefatta, gli occhi gonfi e poi chiusi di cadavere.

Perché non compare mai solo il nome e la faccia di lui, presunto colpevole, va bene, ma perché sotto la lente ci mettiamo sempre lei, la cosiddetta vittima, (quanto lavoro fanno quei centri anti-violenza la cui politica femminista cerca di eliminare dalla narrazione della vittima proprio questa stessa parola, vittima, per dar modo a chi ha subìto violenza di non sentirsi tale, dentro la stessa fenomenologia della preda, della vittima designata, dentro quel sistema di segni per cui quell’uomo ha predestinato quella donna alla paura, alla sottomissione, all’obbedienza, alla mortificazione mentale, all’eliminazione fisica), bisognosa di protezione, di controllo, come se il corpo delle donne fosse meno corpo pubblico, cioè corpo nella sfera pubblica, come valesse meno quindi politicamente, facesse meno parte della pólis (la vecchia buona assemblea democratica, sessista e razzista, ateniese)?

Donne come bottino di guerra, vendute, stuprate, bruciate vive, messe incinta, fatte abortire, o impossibilitate a farlo, mutilate del piacere, punite per troppa bellezza, allontanate per troppa intelligenza, (il “troppo” è una aggravante, naturalmente) affamate secondo canoni di gradimento non loro, relegate all’invisibilità di una cucina o di una cella monastica, razzializzate, sessualizzate, lasciate da parte, messe a tacere, pagate di meno, pagate mai: non dagli uomini di turno di una qualche azienda, di una casa, una università, una fabbrica, un parlamento, fate voi, ma da un intero sistema che funziona solo grazie al fatto che tutte queste pratiche sessiste sono garantite. Pensate a come starebbe una casa senza il lavoro gratuito di cura di una donna, o una azienda o un teatro senza il lavoro sottopagato di operaie ma pure dirigenti e registe e performer e maestranze femminili, o non per forza definibili in qualche vetusta binarietà? Insomma come starebbe il capitalismo senza il patriarcato?

Volontà di dominio

Il fatto è che la violenza c’entra sempre in un sistema basato sulla volontà di dominio, e l’amore non ne è affatto escluso. La violenza c’entra con l’amore perché il potere lo attraversa nelle sue forme migliori e peggiori, quelle che potenziano e quelle che depotenziano e dominano. E il denaro c’entra, una forma di potere che controlla, ricatta, lega, quando non è gestito da un patto di reciproco scambio, che implica libertà, intesa perfetta di reciprocità materiale: come si negozia, come si concilia con tempo e passioni, individualità e messa in comune, come se ne condivide il potere, come ha a che fare con il piacere, come libera il desiderio?

Gli uomini che uccidono le donne ogni giorno non sono dei mostri, sono come ciascuno di voi, siete voi, amatissimi uomini, siete voi che dovreste avere paura degli uomini, di quelli fatti di tutto ciò che vi ha cresciuto e ancora vi cresce, quelli del questo è mio, quelli dell’adesso sei mia, quelli del padre a capo tavola, quelli che non possono cedere, sentirsi deboli, abbandonati, traditi, umiliati, perché perderebbero quel che li fa entrare nello spazio domestico e urbano con sicurezza, spavalderia, con quel passo che non teme di essere fermato, di essere guardato per essere commentato, voluto, posseduto, ucciso, quelli innamorati di questa tecnica di potere che è il patriarcato, (anche certe donne lo hanno interiorizzato al punto da difenderlo con le unghie, lo so).

Continuerete nel ridicolo di certe reazioni impaurite o goliardiche con cui ancora vi legittimate e assolvete, con la vecchia storia della vergogna che tirate fuori per fare della vostra debolezza la vostra forza virile, della vostra volontà di dominio la vostra legittima capacità di potere?

«Adesso basta»

Quando sarà facile sentirvi dire per strada, «Un’altra donna uccisa adesso basta», quando rinuncerete a quel posto che vi viene dato solo per privilegio, quando non griderete la vostra rabbia per non essere stati all’altezza di una donna, quando non vi sentirete innocenti, quando vi sentirete colpevoli di avere messo in piedi un sistema ingiusto, persecutorio, alla base di una economia colonialista basata sullo sfruttamento e la sopraffazione, quando la smetterete di volere dominare come foste la specie eletta, quando finirete di volere controllare singole vite, intere comunità di viventi, esseri umani e non, animali e vegetali, quando non avrete più paura di corpi che non corrispondono alla vostra idea binaria di mascolinità e femminilità, quando accuserete e condannerete uomini come voi riconoscendone le radici culturali e storiche comuni, quando starete in casa e fuori ci saranno strade per donne che si sentiranno sicure da sole, quando smantellerete la vostra politica fatta di gerarchia patriarcale, di sessismo e razzismo, allora, forse, sarete ammessi a un altro genere di assemblea, quella di umani e non-umani, quella che quei corpi coi loro femminismi in movimento continuano da anni a ideare e costruire con le loro pratiche degli affetti e la loro politica inclusiva, non violenta, partecipata, relazionale, tentando di ripensare il potere, dove il denaro c’entra senza oppressione, e pure l’amore.

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