Se nella vita siete fortunati, forse vi sarà capitato di incontrare uno dei romanzi di Fausta Cialente. Magari in biblioteca, oppure in un mercatino dell’usato. Magari buttato in un angolo, con l’impronta di qualche tarma incastrata dagli anni, tra una pagina e l’altra. O magari ordinato e ben tenuto ma in disparte, nella cesta di plastica scadente blu, mangiata dal sole, riposta su un tavolino più traballante degli altri.

La descrizione dell’etichetta, magari, sarà stata: “letteratura femminile”, o “tutto a 1 euro”. Se invece non siete mai stati tanto fortunati, allora non avrete forse nemmeno mai incontrato il suo nome: del resto, nei manuali di letteratura non se ne parla.

Allora vi viene in soccorso la casa editrice nottetempo, che ha appena ripubblicato suoi due libri: Un inverno freddissimo (2022) e, ora, Il vento sulla sabbia.

Sono solo le prime due uscite di un progetto più ampio, curato da Emmanuela Carbé (che si occupa di Cialente da diversi anni ormai), e che prevede la pubblicazione di numerosi altri testi tra i più dimenticati.

La nuova edizione del Vento sulla sabbia vanta poi un’introduzione quasi filologica di Nadia Terranova, e così, con firme diverse, è previsto per ogni nuovo volume. Si tratta di “un’operazione coraggiosa”, come sono sempre “coraggiosi” i recuperi di romanzieri dimenticati a torto? Chissà, ma in certi casi dovrebbe bastare la qualità della loro pagina, o la complessità dei loro personaggi, a dimostrare bene che anche il racconto della nostra storia letteraria è una costruzione culturale – specie se si tratta di una donna.

La storia di Lisa

Uscito per la prima volta nel 1972, Il vento sulla sabbia è la storia di una famiglia allargata di borghesi europei che, in Africa, qualche anno prima della scoppio della Seconda guerra mondiale, giocano a fare gli intellettuali espatriati, gareggiando a suon di musica, tradimenti e velleità.

A parlare è un personaggio femminile che non si nasconde dietro nessun alibi: la lingua è secca e il pensiero la segue, come quando all’improvviso diluvia e non abbiamo un posto sotto cui ripararci. «Energico, spregiudicato, un’ironia graffiante» è del resto il linguaggio della zia, cioè prozia, Albina, cioè Zora (le verità sono interpretazioni, in questo romanzo), da cui la protagonista è affascinata come da una cosa nuova e inafferrabile: tanto che è la sua morte l’evento a partire dal quale può avere inizio il racconto.

Abbandonata la casa dell’appena defunta zia e gettata come un «impiccio» in mezzo a gente che «non voleva assolutamente considerare sua pari», Lisa a diciotto anni sa già fare i conti con il suo destino di sistemata. Per gli altri, a ogni «rovescio di destino», sa ormai persino fingere riconoscenza. O così dice.

Sullo sfondo di un esilio sperimentato anche come una forma di libertà dal peso della Storia e di una certa condizione femminile in cui Lisa non si riconosce a pieno, il romanzo è un tassello importante anche per tentare di ricostruire l’evoluzione ambigua e irrisolta dell’identità italiana.

«L’Italia, dove pur ero nata», dice la protagonista, «era soltanto una memoria di fallimenti e tristezze». In effetti, la stessa biografia della narratrice (così amava definirsi Cialente) abita a pieno il Novecento, smangiucchiandone cronologicamente gli estremi: Cialente nasce nel 1898 e muore nel 1994, e sulla sua vita si è costruita una narrazione di autrice marginale, senza patria.

Senza patria

Sono tutti così anche i personaggi di questa storia e, anzi, la simpatia di Lisa per la zia Albina, che proprio come una metafora sociale del personaggio apolide si situa «a metà strada fra il lusso dei ricchi e la modesta misura dei meno abbienti», o quella per Frida o per Amadeus, con il suo terrore di essere «uno sradicato, non un orientale né un occidentale», deriva proprio dalla loro estraneità alle cianfrusaglie degli altri, che sono lì in bella mostra, esposte sulle mensole per dar loro una maschera dignitosa, ma che inevitabilmente, giorno dopo giorno, si ricoprono di polvere e si rivelano per quello che sono: infide.

«Mia nonna, mia madre mi avevano abituata a sentirle piangere sulla loro sorte di donne rimaste vedove giovani, quindi indifese, e questo mi era sempre dispiaciuto e mi aveva soprattutto sorpresa, giacché mi era sembrato che la parte degli uomini, in casa nostra, non fosse mai molto importante, da nessun punto di vista» (p. 16).

Odio sentirmi una vittima, direbbe Susan Sontag. E vengono in mente anche le parole che usava lei, Cialente, fin dagli anni Cinquanta, con cui non faceva che ribadire quanto l’emancipazione femminile dovesse passare prima di tutto non dal risentimento delle donne per l’uomo, nei confronti del quale sentirsi dunque in uno stato di minorità, ma dall’indipendenza economica. Del resto, gli uomini di cui si ricorda anche la protagonista di Vento sulla sabbia sono tutti «deboli, o incapaci, certamente capricciosi», vanesi e nevrastenici. Complessi, però, come tutti i personaggi di Cialente.

Andamento ondivago

Come in una melodia, con i forte e i pianissimo, anche il romanzo di Cialente si nutre di un andamento ondivago ma armonioso; naturale. «Questo», dice d’altronde Frida con tono liquidatorio, «è un paese di vento, tutto è regolato dal vento, o si vive o si muore». C’è chi lo ha definito un romanzo “minore”, e Cialente era tutto sommato d’accordo; ma c’era anche chi ne disprezzava il tono da rotocalco, relegandolo a un pubblico inesperto, femminile.

«Ma per i libri non avevo previsto che me ne sarei vergognata», dice Lisa il giorno del suo trasferimento nella villa di Frida e Stefan, guardando i volumi ereditati dalla povera zia Albina: «Erano romanzi da quattro soldi, quasi tutti tradotti dal francese»; erano, cioè, proprio feuilletons, romanzi d’appendice, letteratura femminile e popolare.

Per tutti questi motivi non stupisce che il romanzo di Cialente dialoghi con un altro di quegli anni “accusato” di essere popolare (o, meglio, populista): La Storia di Elsa Morante (1974), una delle poche autrici del nostro Novecento che non sia stata troppo dimenticata, e che proprio come i romanzi di Cialente si occupa di riconnettere il discorso di genere a quello di classe, parlando di condizione femminile e, allo stesso modo, di povertà. Entrambe sono state definite inattuali dai loro contemporanei anche perché sembravano non mettere in discussione la forma romanzesca e, anzi, indossare senza contraddizioni – appropriandosene – gli stilemi di una certa letteratura popolare.

Forse non è un caso che nei loro romanzi gli spazi chiusi, interstiziali, diventino parola di chi «finge di non veder nulla, invece niente le sfugge». Sono gli spazi del rimosso, delle donne, degli antifascisti.

«Sapevo fin dall’inizio di dover restare in margine», dice la zia Albina in una delle sue battute, prima di morire. Oppure: «Mi sembrava più utile raccogliere in silenzio il maggior numero d’impressioni sul luogo e sulle persone e dire di me il meno possibile, anche se il mio comportamento poteva farmi sembrare più che timida, astuta o ipocrita», dice Lisa durante la sua prima visita al Sans Souci.

«Lo spazio che avevo a disposizione non era molto, sia per l’esiguità della camera che per i pochi mobili: ma possedevo così poco io stessa che per il momento tutto mi sembrava sufficiente».

Ecco «il recinto di minorità in cui le donne sono state messe e tenute per millenni»; ecco anche, plasticamente, nell’evoluzione di Lisa, quel «fuori campo attivo» di cui parla il già classico saggio di Daniela Brogi, Lo spazio delle donne (Einaudi, 2022).

Questo di Cialente è un romanzo sul mettersi in mostra e sull’essere spettatori, sugli equilibri, anzi, che si creano e si rompono tra la volontà di apparire e il bisogno di nascondiglio, dove l’ansia della dignità da una parte, o, dall’altra, l’ostentazione di scrivere musica come un professionista, ma per diletto, non sono che l’altra faccia dell’aspirazione sociale del consumatore di rotocalchi.

«Che romanzo da quattro soldi!», commenta Lisa di fronte a uno scambio impertinente con il «giovane padrone del luogo» Amadeus: il suo tono è sprezzante, eppure cela un grande desiderio che la vita, e il romanzo, sia proprio, tra le altre cose, un bacio tra due giovani innamorati. In questo senso la stanza da cui scrive Fausta Cialente è uno spiraglio da cui spiare il Novecento, con il suo «cerebralismo decadente».

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