Sono tanti i libri e le manifestazioni che celebrano i settecento anni dalla morte di Dante Alighieri (Firenze 1265 – Ravenna, 1321) e farne il conto a poco serve: leggere tutti questi libri, seguire ogni avvenimento sarebbe un’impresa e non avrebbe alcun senso. Sta di fatto che la travolgente personalità del poeta si staglia possente nella storia della civiltà occidentale dell’evo moderno. Mi piace però ricordare la Dante sinfonia che Franz Liszt compose nel 1856 dedicata all’Inferno e al Purgatorio.

Verso l’empireo

La Comedia è una summa del mondo medievale il cui patrimonio letterario, filosofico, scientifico e per altri aspetti anche artistico si specchia e si ritrova nelle sue terzine. Dante fu non solo sommo letterato ma storico con una vasta cultura che abbraccia il mondo antico: non è certo un caso che sia Virgilio la sua guida privilegiata che lo conduce alle soglie del Paradiso e con lui Stazio, poi la guida è San Bernardo che è l’espressione delle virtù teologali. San Bernardo consegna il poeta nelle mani di Beatrice che con Virgilio è la figura centrale nel poema ed è lei che lo conduce alla luce del Paradiso e gli consente di porsi come poeta e profeta.

Nel XXXIII canto del Paradiso San Bernardo prega la Vergine Maria, per poi volgere il suo sguardo a Dio. Invita il poeta a fare lo stesso e Dante non distoglierà mai i suoi occhi dalla luce divina ma affronta l’immane difficoltà teologica, psicologica, tecnica in senso propriamente letterario di rappresentarne la sua visione. Il poeta evoca miti, situazioni lessicali, campi semantici e metaforici impiegando tutti i suoi strumenti stilistici, retorici e cognitivi. Quest’ultimo canto della Comedia ha una struttura profondamente unitaria nella sua intenzionale frammentarietà anche se il suo obiettivo è quello di riflettere il susseguirsi vertiginoso delle sue esperienze e percezioni, e delle difficoltà espressive e narrative che deve superare l’auctor.

Al centro della supplica di Bernardo c’è Dante stesso che è il protagonista di un viaggio dall’«infima lacuna dell’universo» al cielo empireo che fa svanire in Dante la paura dello smarrimento e della morte fisica e spirituale da cui era partito. La Comedia è «poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra» (Par. XXV, 1-2) è il grande viaggio dell’auctor e di tutta l’umanità dalla «perduta via» da cui si parte in esordio dell’Inferno fino alla luce di Dio.

Queste poche parole mi consentono di rinviare il lettore all’edizione della Comedia a cura di Roberto Mercuri, grande linguista e dantista: l’opera edita da Einaudi in tre tomi, assume ai miei occhi di solo appassionato lettore un primato assoluto. Ero rimasto all’edizione della Comedia curata dal grande italianista Natalino Sapegno che avevo studiato in una editio minor con profitto quando andavo al liceo classico.

Il Mercuri va ben oltre: a parte una splendida introduzione, fa precedere ogni canto da un riassunto di sua mano che è una stampella preziosa per il lettore, una guida che presenta fatti, avvenimenti, uomini e donne che si incontreranno e un commento sagace sulla struttura del canto svelando allegorie, sciogliendo nodi problematici o più oscuri, a cui le note possono essere di conforto. Quindi chi poi legge ciascun canto cammina sul velluto.

Le vie di Dante

Ma Dante condannato all’esilio fu costretto a lasciare Firenze nel 1302 e a viaggiare non solo per l’Italia: infatti, dopo aver percorso la via Lunigiana e la Liguria fu ad Avignone intorno al 1309 dove s’era insediato papa Clemente V, poi forse a Parigi ma su questa tappa del suo viaggiare le notizie sono del tutto incerte. Ma i suoi interessi per le arti partono naturalmente dalla sua città da cui trasse molte suggestioni a partire dal «Bel San Giovanni», dai Crocifissi di Cimabue in Santa Croce e in Santa Maria Novella, che con Giotto si contende «lo campo della pittura», così come a Pisa Nicola e Giovanni pisano gli svelano il valore della scultura con il pulpito del Battistero come ricorda nel Purgatorio. Tanto che il loro lavoro non è secondo a Policleto: il riferimento all’antico è un refrain continuo nel poema.

Dante fu a Roma certamente per il Giubileo del 1300 al tempo di Bonifacio VIII, acerrimo nemico del poeta che non esita a porlo nell’Inferno. Qui rimase affascinato dai rilievi dell’Arco di Tito e della Colonna Traiana e dai mosaici disseminati in tante chiese a partire da San Paolo fuori le mura dove forse per la prima volta scopre l’opera di Arnolfo di Cambio con il ciborio petrus e forse vedrà anche il sarcofago di Bonifacio VIII nelle Grotte vaticane anche se il papa era stato concausa del suo esilio per il sostegno offerto ai Guelfi neri a Firenze.

Sulla via per Roma passa ancora per Siena e Arezzo dove ritrova Cimabue nella chiesa di San Domenico. Risale la penisola e passa per Bologna nel 1304 dove era già stato e resta stupefatto nel vedere campeggiare nel palazzo della Biada la statua dorata dell’esecrato papa Bonifacio, ma la città è anche la sede dello studio dove ha occasione di confronto per il Convivio e il De vulgari eloquentia che stava scrivendo. Ma non trovò pace neanche a Bologna e le difficoltà economiche ne angustiavano la vita.

Sarà la città di Verona dominata dagli Scaligeri – dove più volte era stato nel 1303 e nel 1304 – a dargli requie: chiese la protezione a Cangrande della Scala che gliela concesse: a Verona poté visitare San Zeno a cui fa esplicito riferimento nel Purgatorio. Nella vicina Padova Giotto era intento alla Cappella degli Scrovegni: molto si è detto su un possibile incontro con il pittore, ma forse Dante l’aveva già incontrato a Firenze. Nondimeno Giotto è l’acme del suo modello di riferimento artistico.

L’ultimo approdo di questo girovagare è Ravenna dominata da i Da Polenta dove visse a lungo fino alla morte, e scrisse buona parte della Comedia. Qui il poeta ebbe modo di conoscere tutte le splendide chiese sia paleocristiane che tardo bizantine.

La mostra

Proprio nella città dei Da Polenta, nella chiesa di San Romualdo, è ospitata la mostra Dante. Le arti al tempo dell’esilio, a cura di Massimo Modica. La mostra sarà aperta fino al 14 luglio, catalogo Silvana editoriale.

La comprende L’incoronazione della Vergine, santi, scene della passione a morte di Cristo di Giuliano da Rimini attivo tra la fine del XIII e la prima metà del XV secolo: una tavola a tempera di circa due metri per due, La donna alla fonte di Arnolfo di Cambio, l’Officiolum  di Francesco da Barberino, anche l’odiato volto in rame di Bonifacio VIII. Oreficerie, manoscritti, miniature e altre preziose reliquie fanno corona al Polittico di Badia circa 1300, cm 142x337: polittico in cinque formelle con la Vergine al centro, una delle opere più importante che si vedono nella mostra ravennate. Ma scegliere tra cinquanta opere tra cui pitture, sculture e manoscritti miniati sarà compito del visitatore.

Una mostra è importante non per la quantità di pezzi ma per la loro qualità e per l’intelligenza della selezione. Qui pertanto bisogna dare atto al curatore della mostra Massimo Modica e a Maurizio Tarantino che dirige il museo, ed è quindi promotore della stessa, di aver fatto un lavoro impeccabile.

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