Nel Canto d’amore di J.Alfred Prufrock, poema giovanile sulla passeggiata esistenziale di un uomo medio, Eliot scrive: «Ci sarà tempo/ per prepararti una faccia per incontrare le facce che incontri».

Sarà perché abito a Milano in zona centrale, o perché nel mio cortile fino a ieri tranquillo hanno impiantato uno showroom di moda, ma ho l’impressione che il tempo indicato da Eliot sia ormai giunto. Quando esco a passeggiare da uomo medio mi sembra che tutte le facce che incontro siano ormai “preparate”: non voglio dire soltanto truccate o ritoccate chirurgicamente, la faccenda è più sottile.

Negli occhi degli altri

I ragazzi e le ragazze in fila per comprare vestiti firmati a prezzo scontato chiacchierano e scherzano senza nessuna affettazione, ma c’è qualcosa nella loro espressione, nell’atteggiarsi dei muscoli facciali, che me li fa percepire come sempre attenti agli sguardi che si posano su di loro: non vogliono essere colti in fallo di distrazione, che significherebbe apparire brutti, o sciatti, o addirittura scostanti e infine misantropi; il loro volto pare sempre sul chi-vive, teso a cogliere o a prevenire le critiche. Le sopracciglia depilate, la pelle in ordine, postura in armonia con l’abito che indossano.

È l’atteggiamento che una volta si teneva quando si “andava in società”, ben sapendo che la nostra immagine negli occhi degli altri alla festa o alla cerimonia ufficiale sarebbe stata elemento di giudizio e avrebbe pesato sulla nostra reputazione. Ora è come se qualsiasi momento della vita di coloro che incontro (anche se stanno portando fuori il cane o corrono in extremis al supermercato) venisse considerato un rito sociale per il quale tenersi pronti.

Le uniche facce-facce, non so come dirlo, le facce sbilenche e dimentiche di sé, quelle che cambiano se devono chiederti qualcosa ma subito ritornano allo stampo che la vita ha scelto per loro, sono le facce di alcuni anziani di basso ceto (in genere maschi) e quelle dei mendicanti all’angolo di strada. Sono loro a sentirsi davvero a casa nella propria faccia, gli altri ho l’impressione che se ne sentano tutti in qualche misura stranieri e responsabili.

Ritoccare la maschera

Provo una sensazione non dissimile quando, per esperimento e divertimento, confronto il serale del Gf Vip con la diretta continua, ventiquattr’ore su ventiquattro, trasmessa sul canale 55 del digitale terrestre.

Verso le undici o mezzogiorno, quando la casa comincia a svegliarsi (si va a letto tardi), si può vedere ancora qualche faccia non preparata: per esempio quella di Giucas Casella che gioca a biliardo, o di Katia Ricciarelli imbufalita per le pulizie non fatte in cucina. Ma già verso l’una di pomeriggio, e non solo il lunedì e il venerdì per il serale, soprattutto le ragazze e le signore dilatano a dismisura il tempo della preparazione: Soleil Sorge, per arricciare e acconciare i suoi lunghi capelli, passa minuti infiniti e ha bisogno di almeno un’amica – aiutante –, i concorrenti non sanno come impiegare un pomeriggio che non passa mai e sistemarsi il viso a vicenda (al rallentatore) è una soluzione; già preparandosi i bronci si fanno meno naturali, la consapevolezza delle telecamere sopravviene.

Una voce dall’altoparlante, periodicamente o quando il trantran si ammoscia, chiama “X o Y al confessionale” e già chi si reca lì dentro mostra una faccia preparata. Insomma, quasi soltanto mentre dormono e noi le vediamo a raggi infrarossi le facce godono di una vacanza, aderendo tranquille ai loro proprietari (a meno che, naturalmente, non abbiano subìto interventi plastici duraturi, tatuaggi indelebili).

I serali del lunedì e venerdì sono la fiera delle facce finte: alla maschera ormai “normale” si somma quella ipocrita del gioco, fino alla raffinatezza suprema di prepararsi una faccia nella quale Signorini possa sostenere «che si può leggere come in un libro aperto» (in questo Soleil è maestra).

Facce preparate al quadrato, in perfetta analogia con un format che (pur avendo la sfacciataggine di chiamarsi “realtà”) mediante un sapiente montaggio riesce a proporre come “spettacolo” un livello e come “verità” un livello ulteriore di finzione, trattandosi invece sempre di spettacolo, di primo o di secondo grado: un gioco coi sentimenti al quadrato.

L’economia è sempre una buona spia di quel che accade nella psiche: da qualche anno al Gf Vip succede una cosa che sarebbe stata impensabile nei primi ingenui Gf, cioè i concorrenti sgranocchiano cioccolatini e bevono acque minerali col marchio in bella mostra – quale ammissione e intuizione migliore del fatto che i concorrenti medesimi hanno lo stesso statuto informativo dei prodotti? E loro inconsciamente lo sanno, inconsciamente si adeguano, curano il loro packaging.

Il fidanzato della fumettistica Francesca Cipriani, così innocente da raccontare che la suddetta Soleil gli aveva chiesto dei mobili per un appartamento offrendo di pagarli con una “story” su Instagram, e che lui aveva rifiutato perché «non gli conveniva economicamente», ebbene anche questo esemplare di incontaminato buon selvaggio, una volta ospite di D’Urso (lei felice di classificare questa ghiotta notizia come «busta shock gold»), ha già cambiato faccia.

Personaggi social

Non ci si salva da Instagram né dai social in generale: nessuno vi posta un proprio selfie se prima non sente di avere la faccia preparata. È lì che la maggior parte della gente si sta abituando alla propria faccia da esportazione; i professionisti la esibiscono, mettono le labbra a cuore o stirano il sorriso in una smorfia arguta – ma anche gli altri, diciamo i sinceri, gli estremisti del «prendetemi come sono, io mi piaccio così», non possono evitare che i loro difetti o il loro disprezzo per il mondo patinato diventino involontariamente una posa.

È sui social, lo sappiamo, che la distanza tra il mondo e la sua rappresentazione si assottiglia fino a svanire; il Covid ha aggravato la situazione facendoci pian piano accettare come “naturali” le facce dei nostri amici filtrate da Google Meet o da Zoom.

Per non parlare dei politici, con la loro brava libreria alle spalle, la pianta verde, la voce che gracchia e ogni tanto va via, i politici in collegamento che quando il conduttore li trascura hanno imparato a “fare le facce” per attirare l’attenzione.

Nella società dello spettacolo diventiamo noi stessi spettacolo, diceva un profetico Guy Debord più di cinquant’anni fa; e se siamo attori di noi stessi, si sa che il bravo attore sa trasformare la maschera del proprio viso nella “vera faccia” del suo personaggio.

Non siamo più i proprietari del nostro viso? Ogni tanto mi incanto a osservare i volti e gli sguardi di quelle o quelli che hanno milioni di follower: a volte fissi su un altrove come sacre icone, altre volte in versione “simpa” ed esagerati come autoparodie – iconolatria e iconoclastia strette in un nodo inestricabile, l’anima chissà dov’è.

Anche noi scrittori, se fotografati o ripresi in tv, smettiamo di essere noi (tranne, misteriosamente, Aldo Busi da vecchio: straordinaria la sua faccia mentre parlava ai giovani dell’ultimo La pupa e il secchione).

Il volto è il biglietto da visita della verità e dell’onore: non a caso esistono le formule “metterci la faccia” o “perdere la faccia”.

Non vorrei stiracchiare troppo la riflessione, ma la coincidenza di ostensione e sottrazione del volto operata dai divi social mi fa venire in mente altre sovrapposizioni contraddittorie: per esempio, quella tra l’iper-realismo delle immagini (consentito dai progressi della tecnologia) e la parallela de-realizzazione di ciò che vediamo; oppure il contemporaneo paradossale diffondersi di un neo-scetticismo (o neo-pirronismo) per cui di nulla possiamo essere certi e insieme di una dose via via crescente di intolleranza.

Nel nostro volto c’erano (ci sono ancora?) l’indecenza, la colpa, il dubbio, l’orgoglio e la vergogna di essere diversi dai diversi; c’era soprattutto la resa, c’erano i segni della decadenza e della morte – queste facce webbabili che vedo ogni giorno e in cui fatalmente mi specchio sono forse premonitrici di una stagione iconografica (e culturale) in cui anche la verità sarà “preparata”?

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