Non so quanti tra i miei lettori se ne siano accorti nel corso di tutti questi anni, ma in coda a ogni mio libro, che si trattasse di un romanzo o di un saggio, non ho mai mancato di ringraziare per primi “Walter e Ada”. Walter era del resto il nome che avevo scelto per il protagonista del mio primo romanzo, uscito nel 1994 e intitolato Tutti giù per terra. E in tutto questo tempo ho perso il conto delle volte che mi sono sentito chiedere dai lettori che di volta in volta incontravo – quando ancora la promozione di un libro poteva avvenire “in presenza” – una domanda che in ogni occasione suonava sempre uguale, malgrado dalla pubblicazione di quel mio romanzo d’esordio fossero ormai passati anni e anni: «Perché l’hai chiamato Walter il protagonista di Tutti giù per terra?».

Il fatto è che Tutti giù per terra e tutti i libri che ho scritto in seguito erano in fondo anche il mio modo di rimandare fino a quando non fossi stato pronto per scriverla la prima storia che avrei voluto essere capace di scrivere: la storia di un altro Walter, non quello portato sullo schermo nel 1997 da Valerio Mastandrea, ma il Walter che in coda a tutti i miei libri ho sempre ringraziato assieme a sua madre Ada. E dunque Walter Alasia, ucciso dalla polizia all’alba del 15 dicembre 1976 a Sesto San Giovanni, all’epoca la cosiddetta Stalingrado italiana.

Walter Alasia era, anzi è, mio cugino, il figlio della sorella di mia madre Elisabetta, Ada Tibaldi. Ma per me, nel breve tempo che ci è stato dato di essere entrambi contemporaneamente in vita su questa terra, è stato molto più che un cugino. Walter è stato per me letteralmente un fratello, il fratello maggiore che mi ha insegnato a disegnare e a giocare a basket, a imitare le voci e a barare a carte, il ragazzo con cui ho vissuto senz’ombra di dubbio i giorni più felici della mia infanzia, quando da Sesto San Giovanni tornava in Piemonte coi suoi genitori per le vacanze estive o durante le festività natalizie, per Carnevale o per Pasqua.

Quando è stato ucciso, Walter era entrato da poco nelle brigate rosse. Aveva vent’anni, e io undici. Quel giorno tornai a casa da scuola felice perché l’indomani avrei giocato a basket coi miei compagni di classe e mettendo piede in cucina trovai i miei genitori e mia sorella in lacrime davanti al televisore, la tavola apparecchiata solo a metà, e la fototessera di Walter che mi fissava dallo schermo in bianco e nero, con la voce del giornalista di turno che raccontava almeno in parte quello che era successo quella mattina.

Walter, diceva la tivù, aveva ucciso due poliziotti, il maresciallo dell’antiterrorismo Sergio Bazzega e il vice questore di Milano Vittorio Padovani, perché in realtà non era solo un figlio di operai come tanti altri, ma un terrorista. Già: un terrorista. Da parte mia non riuscivo a collegare quella parola a Walter. Come non potevo credere nei giorni seguenti che su certi giornali lo definissero un mostro.

Walter era per me il ragazzo bello e generoso che da sempre in famiglia metteva tutti di buonumore coi suoi scherzi e le sue battute; era lo spilungone che, affettuoso e paziente oltre ogni dire, assecondava tutte ma proprio tutte le mie richieste (Walter giochiamo a pallone / a braccio di ferro / a scala quaranta / coi soldatini / andiamo in bici / disegniamo Zorro / ti va di correre / facciamo una passeggiata / mi compri il gelato?); era davvero il fratello maggiore con cui mi sentivo al sicuro perfino quando mi faceva sedere sul manubrio della bicicletta di mia madre per poi percorrere a tutta velocità la lunga discesa tutta curve che portava nel paesino del canavese in cui vivevo allora, Grosso, che a dispetto del nome era minuscolo e contava appena novecento anime.

Doveva trattarsi di una sorta di idillio campestre per lui che, ogni volta, anziché stare coi suoi si fermava a dormire da noi, malgrado non avessimo una camera per gli ospiti e dovesse adattarsi a riposare su un divano troppo corto per la sua altezza. Nato e cresciuto in quel contesto urbano fatto di cemento, asfalto e ciminiere, era diventato adolescente mentre il 12 dicembre 1969 il paese perdeva l’innocenza (se mai l’aveva avuta: vedi i fatti di Portella della Ginestra, 1° Maggio 1947) con la strage di piazza Fontana e, tre giorni più tardi, con la morte di Giuseppe Pinelli.

Due eventi luttuosi che all’indomani dell’autunno caldo e del Sessantotto avevano segnato un punto di svolta. Perché da quell’esplosione capace di uccidere 17 persone e ferirne 88 e dal ritrovamento del corpo del ferroviere anarchico nel cortile della questura milanese, sotto la famosa finestra al quarto piano dov’era l’ufficio del commissario Luigi Calabresi, il vortice di violenza destinato a insanguinare il paese in quella che sarebbe diventata una vera e propria guerra civile a bassa intensità non si era più fermato.

Figlio di operai

Walter era figlio di operai, e sapeva bene com’è che quelli che all’epoca venivano comunemente detti “i padroni” sfruttavano la manodopera, a cominciare da quel cottimo che per i “rider” di oggi è diventata la norma; e visti gli esiti delle inchieste riguardanti la strage di piazza Fontana e la morte di Pinelli, e i relativi depistaggi, aveva introiettato alla pari di tanti altri (non solo giovani come lui) l’idea che la legge in Italia non fosse precisamente “uguale per tutti”, e che gli ideali della Resistenza fossero stati traditi da uno stato che si diceva figlio di questa.

L’ingresso in Lotta continua doveva essere stato per lui un passo naturale, all’interno di quel contesto e di quelle dinamiche. Poi, la scelta di entrare nelle brigate rosse. Di cui a un certo punto rese partecipe soltanto Ada, sua madre, a cui era legato da un rapporto strettissimo d’amore quale non mi è mai più capitato di vedere.

Esiste un’intervista a mia zia, fatta dalla Rai a distanza di qualche tempo da quel 15 dicembre 1976, in cui lei dice: «Se mio figlio avesse deciso di farsi prete, cosa che conoscendolo mi sembra improbabile, sarei andata a messa tutte le mattine». Soltanto mia zia sapeva perché mai quella mattina la polizia fosse venuta a prelevare Walter. Sentendo i colpi dei calci dei fucili sulla porta, e le parole «Polizia! Aprite!» dovette sperare che suo figlio riuscisse a scappare.

I mostri fanno comodo

Per lungo tempo mi sono chiesto perché Walter quella mattina decise di sparare, senza rendersi conto così facendo di creare degli orfani e delle vedove. Solo quando a distanza di più di quarant’anni ho scritto Il tempo di vivere con te ho creduto di capire. Capire non significa giustificare: ma detto questo, l’amore che mi lega a Walter fin da quando ero bambino non è cambiato. Non è vero che il tempo guarisce ogni cosa. Certe ferite non si rimarginano mai.

Da quanto ho avuto modo di ricostruire, ferito alle gambe nel momento in cui si era calato dal balcone della casa al primo piano del condominio di edilizia popolare al numero 161 di via Giacomo Leopardi, Walter Alasia ormai inerme venne finito con un colpo di pistola al cuore. All’epoca la versione ufficiale fu che si fosse rialzato da terra e avesse sparato ai barellieri dell’ambulanza chiamati a soccorrerlo: ma costoro smentirono categoricamente la cosa. Quanto ad Ada, nel giro di otto anni morì di crepacuore.

Immagino che in molti mi chiederanno da qui in poi perché io abbia scritto Il tempo di vivere con te. Le ragioni in realtà sono molteplici. Innanzitutto, perché lo promisi a Walter il giorno dopo la sua morte. Poi perché avendolo promesso a lui, l’ho promesso a me: il file vuoto intitolato semplicemente con le sue iniziali, WA, era presente da decenni sulla scrivania del mio computer. Ma non solo. I cosiddetti anni di piombo restano in Italia una sorta di buco nero, costellati come sono ancora oggi di misteri indicibili, a cominciare dal caso Moro. E resta un tabù parlare dei ragazzi che all’epoca fecero la scelta di Walter se non appunto come mostri. Io ai mostri non credo. Per me Walter non era un mostro. Neppure Hitler era un mostro. I mostri fanno comodo. Ci fanno sentire diversi, migliori. Capire che non lo sono è senz’altro doloroso, ma necessario.


Giuseppe Culicchia è autore del libro Il tempo di vivere con te, edito da Mondadori. Esce il 2 febbraio


Dopo l’articolo pubblicato su Domani a cura dello scrittore Giuseppe Culicchia, la politologa Nadia Urbinati e l’economista Valeria Termini hanno scritto questo intervento: 

Il 3 febbraio Domani ha pubblicato un articolo dello scrittore Giuseppe Culicchia che condensava i contenuti del suo nuovo libro appena uscito per Mondadori, Il tempo di vivere con te. Nel libro e nell’articolo Culicchia racconta un suo cugino che è stato anche il protagonista di vari suoi romanzi: Walter Alasia, suo cugino, membro delle Brigate rosse, morto a vent’anni nel 1976 in un conflitto a fuoco con la polizia dopo aver ucciso Sergio Bazzega, maresciallo dell'antiterrorismo ed il vicequestore di Sesto San Giovanni Vittorio Padovani. A lui le Brigate Rosse hanno intitolato la loro “colonna” milanese.

La libertà di stampa è una cosa seria. Guai a discuterla. Questo non esime chi scrive da una responsabilità sociale nei confronti del lettore, di qualsiasi età e convincimento. Parliamo di etica, senza alcuna connotazione moralistica.

Il lungo articolo di Giuseppe Culicchia (pubblicato da Domani, 2 febbraio), che descrive la sua infanzia e l’amore per il cugino brigatista Walter Alasia (il quale diede il nome ad una cellula brigatista), fa riflettere e lascia il sapore di una pesante leggerezza. Le parole hanno un peso.

A ridosso delle celebrazioni del giorno della memoria, in cui abbiamo ascoltato i racconti umanissimi con i quali Liliana Segre ci mette a parte di alcuni degli episodi raccapriccianti che ha vissuto nei campi di sterminio istituiti da Hitler, si prova un disagio profondo nel vedere associato Adolf Hitler alle Brigate rosse per ridare normalità ad entrambi con l’intento di restituire loro dignità umana. La confusione di pensiero dà i brividi.

«Hitler non era un mostro», scrive Giuseppe Culicchia, come non lo era suo cugino brigatista Walter Alasia, ammazzato dopo aver ucciso due poliziotti andati ad arrestarlo. E poi il giudizio: «I mostri fanno comodo. Ci fanno sentire diversi, migliori».

La banalizzazione del male

Conosciamo bene questo argomentare – ripetuto tante volte e in tanti contesti dopo l’analisi di Hannah Arendt del processo ad Adolf Eichmann. In quel tribunale il pensiero che la banalità del male si insidia in persone dall’apparenza comune non era certo riferito a Hitler, ma ai sottoposti, gestori dell’organizzazione tecnica dei lager. Diceva al mondo che i mediocri sanno essere disumani e crudeli. Ma la loro “normalità” non li solleva dalla criminalità, anche sapendo che per qualcuno erano amorevoli e buoni parenti.

Non cadiamo in questa trappola concettuale. Contribuire al rafforzamento di una società costruita su valori umani richiede una lettura rispettosa della storia passata, diversa da quella evocata, dove i comportamenti trovano interpretazione in una apparente leggerezza che non appartiene agli eventi.

Quando la memoria storica rischia di offuscarsi nella mente dei ragazzi non si possono perdere di vista questi confini, né strumentalizzare concetti alti come quelli espressi allora con coraggio da Hannah Arendt. Oggi più che mai, nella confusione che si è generata sulle responsabilità dei singoli e sull’importanza di quelle collettive, la linea di demarcazione è netta. Nel momento in cui la tragedia della pandemia esalta l’urgenza di comportamenti solidali e di responsabilità politiche e sociali serve attenzione.

Ciò premesso, resta la distinzione tra gli assassini e i lavoratori, tra l’umanità la disumanità -lo descrisse bene, allora, Pasolini. E si adatta agli anni di piombo, che definire “cosiddetti” come fa Culicchia, dà l’impressione a chi non li visse che furono un’immagine fabbricata ad arte, che non esistettero. Nell’articolo, Giuseppe Culicchia vuole renderci partecipi dei suoi ricordi affettuosi, privatissimi e certamente rievocati con dolore, verso uno di quei ragazzi che hanno insanguinato il paese con morti inutili e dolorose.

Umani disumani

Per noi Hitler rimane una deviazione dell’umanità, senza nessuna osservazione di comodo, senza nessuna valenza personale di autocompiacimento che non sia il dolore immenso per la devastazione che ha provocato e per le sofferenze che ancora ci sono vicine.

La memoria dei sentimenti familiari non lenisce quella dei fatti criminali perpetrati non da “mostri” ma da umani disumani.

A sua volta Giuseppe Culicchia ha risposto: 

Gentile Direttore, confesso di aver letto con incredulità il commento delle professoresse Urbinati e Termini in merito alla chiusa dell’articolo in cui con un’iperbole terminavo il racconto della genesi del mio Il tempo di vivere con te: «Per me Walter [Alasia, n.d.a.] non era un mostro. Neppure Hitler era un mostro. I mostri fanno comodo. Ci fanno sentire diversi, migliori. Capire che non lo sono è senz’altro doloroso, ma necessario».

Va da sé che non si trattava né di fare un parallelo tra Walter Alasia e Adolf Hitler (!) né di assolvere l’uno o l’altro.

Era per l’appunto un’iperbole, o come recita la Treccani una “figura retorica che consiste nel portare all’eccesso il significato di un’espressione, amplificando o riducendo il suo riferimento alla realtà per rafforzarne il senso e aumentarne, per contrasto, la credibilità”. Sia come sia: su mio cugino Walter Alasia, che all’epoca dei fatti venne definito un “mostro”, ho appunto scritto un libro.

Chi vorrà leggerlo avrà forse qualche elemento in più per capire se in effetti fosse tale. Quanto a Hitler e all’hitlerismo, esiste un’ampia letteratura – penso innanzitutto a Gitta Sereny e al suo In quelle tenebre, sul comandante di Treblinka Franz Stangl, o al famoso testo di Robert Browning intitolato Uomini comuni: polizia tedesca e soluzione finale in Polonia – capace di illustrare da diverse angolazioni quello che ci disturba di più riguardo a determinati personaggi: appartenevano alla nostra stessa Specie, com’è noto la più pericolosa mai comparsa sulla faccia della Terra.

Come scrive Joachim Fest, uno tra i più autorevoli biografi del dittatore tedesco, «in quanto artefice di un pessimismo totale in relazione all’uomo e al mondo, in una misura che nessuna negazione e nessun desiderio di minimizzarlo possono eguagliare, Hitler continua a rimanere contemporaneo di tutti noi».

Sarebbe certo più rassicurante credere, come nelle favole, all’esistenza di mostri. Si tratta invece di prendere atto che esistono esseri umani capaci di commettere mostruosità, ma che in quanto umani sono – malgrado questo ci sconvolga – nostri simili.

Pochi mesi dopo la mattina in cui Walter Alasia uccise e venne ucciso (da quanto ho avuto modo di ricostruire in base alle testimonianze dell’epoca, per l’esattezza venne giustiziato: ferito alle gambe e ormai inerme, fu finito con un colpo di pistola, un modo di esercitare la giustizia alquanto singolare in uno Stato democratico), uscì in Germania un film di Hans Jurgen Syberberg, lungo sette ore e intitolato Hitler, un film sulla Germania, in cui il cineasta tedesco si proponeva di mettere in scena «lo Hitler che è in ciascuno di noi».

Secondo Syberberg, Hitler era la proiezione di un popolo: «Nessun uomo è stato così amato e odiato» e poiché «l’uomo può entusiasmarsi sia per il Bene sia per il Male» fare un processo al dittatore significava fare un processo a un popolo intero. Svuotare di senso umano Hitler, riducendolo a una marionetta o appunto a un mostro, equivaleva secondo Syberberg ad assolvere i tedeschi; al contrario, il regista voleva costringere ogni spettatore a combattere con il proprio demone interiore, e Susan Sontag scrisse non a caso che si trattava del film più straordinario che avesse mai visto.

Per restare in ambito cinematografico, si pensi alle critiche feroci che in Germania vennero indirizzate a Bruno Ganz nel 2004 per la sua interpretazione di Hitler nel film La caduta, di Oliver Hirschbiegel. Il grande attore svizzero venne infatti accusato di rendere Hitler “troppo umano”: ed è appunto questa la cosa che ci inquieta di più, e su cui credo non dovremmo cessare di interrogarci.

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