«Los Angeles è una costellazione di plastica», ha detto Norman Mailer, e non penso si riferisse a Selling Sunset, ma calza comunque a pennello. Selling Sunset è un reality di Netflix che ruota intorno all’Oppenheim Group, un’agenzia immobiliare sulla Sunset strip che tratta case di lusso tra Hollywood e Beverly Hills. I protagonisti sono gli indistinguibili gemelli Oppenheim, Brett e Jason, e sette agenti rifattissime e agguerritissime che galoppano tra cantieri sterrati e proprietà da milioni di dollari su tacchi che mi fanno venire male ai piedi solo a guardarle.

La serie – dello stesso creatore di The Hills – ha tutto quello che si può desiderare in un programma del genere (che non è molto, a dirla tutta): piscine, piscine idromassaggio, piscine a sfioro, party in piscina, piscine coperte; tette grosse, cani piccoli, viste panoramiche, competizione, matrimoni, divorzi, donne che litigano e fanno pace per finta e parlano di mancanza di rispetto con una frequenza che neanche nel Padrino. Se ogni volta che qualcuno dice “disrespect” bevessi uno shot moriresti di cirrosi entro la terza stagione.

Doppi bagni, nessun bidet

Ma l’attrazione principale di Selling Sunset, il vero motivo per cui mi ci sono trovata ipnotizzata davanti – per un numero di ore consecutive che non sono disposta a rivelare – è lo stesso per cui ogni tanto a Milano passeggio per via Bianca di Savoia schiumando dalla bocca: pornografia immobiliare.

Ogni casa sembra la villa di Parasite. Ci sono cucine con due forni, bagni con due docce (ma mai un bidet neanche per sbaglio), una quantità di camere da letto senza alcun senso pratico. Nel primo episodio Brett (o Jason?) porta le ragazze a vedere una proprietà da quaranta milioni, spiegando che i tre pali del telefono che disturbano la vista a trecentosessanta gradi su Los Angeles verranno presto rimossi per quattrocentomila dollari, che è più o meno la cifra che avrò pagato di affitto di case modeste (ma almeno bidet-munite) alla fine della mia vita.

Una grotta piena di muffa

Per sei anni ho abitato in un bilocale che era più che altro una grotta piena di muffa in cui la cucina era stata ricavata da quello che con ogni evidenza avrebbe dovuto essere un armadio, sia per le dimensioni (se aprivi il frigo dovevi uscire) che per l’insolita collocazione, proprio accanto al letto.

Il muro della camera era condiviso con una chiesa, ma più che altro col campanile della chiesa, le cui campane rintoccavano dalle 7 del mattino alle 10 di sera ogni mezz’ora, con assoli lunghi ed entusiastici un paio di volte al giorno, talmente forti che mi era impossibile sentire i miei stessi pensieri.

C’era un cavedio che sembrava il pozzo del Silenzio degli innocenti e un armadio grande come una ventiquattrore. Ma per spirito di adattamento e ragioni sentimentali amavo molto quel buco di appartamento. Qualcuno lo avrebbe chiamato bohémien, mio padre lo chiamava il cesso.

Una sostanza collosa

Prima del cesso c’era stata una casa geograficamente vicinissima a via Bianca di Savoia, ma sostanzialmente molto diversa: gli interstizi tra le ante della cucina erano coperte di una sostanza collosa a sua volta coperta di peli e capelli di inquilini precedenti a cui nessuno aveva il coraggio di avvicinarsi, neanche la donna delle pulizie convocata per quest’unica mansione.

Prima ancora avevo passato l’estate della maturità a Londra, in un monolocale di Camden da ottocento sterline al mese che vantava una moquette radioattiva e un ampio buco nella porta del bagno che gli efficienti proprietari avevano coperto con un calendario di pompieri nudi. Problema risolto.

Vista sull’ospedale

Un anno fa ho lasciato il cesso con dispiacere, ma anche con la pressante preoccupazione di morire intossicata dalle muffe come Brittany Murphy, e da allora vivo in una casa degna di questo nome. 

E con questo intendo una casa adeguata a una persona di ventotto anni non ricca di famiglia che sta a Milano con uno stipendio da editoria libraria e con quella tendenza a vivere al di sopra delle proprie possibilità che descrive nei suoi libri Raffaele Alberto Ventura, ma che nel mondo di Selling Sunset sarebbe considerata il guardaroba piccolo. La vista in effetti lascia un po’ a desiderare: dalla finestra, mentre mangio, vedo le flebo di un padiglione dell’ospedale.

Appartamenti mortificanti

Quando finirà tutto questo? Quando ci potremo permettere di avere una stanza in più che non serve a nulla? O un bagno con le piastrelle successive agli anni Settanta? O, la sparo grossa, due bagni?

Da anni ormai collezioniamo appartamenti mortificanti, arredati da padroni di casa con il gusto dell’Unione sovietica e l’abbonamento al catalogo del Mercatone Uno.

C’è una puntata di Broad City in cui un’agente immobiliare interpretata da Amy Sedaris – a cui voglio bene più che ad alcuni membri della mia famiglia – porta in giro le due protagoniste per appartamenti di New York.

Il tour è un’esilarante galleria degli orrori: un appartamento senza bagno ricavato da un corridoio; un loft dove si è appena consumato un omicidio, le pareti ancora sporche di sangue.

Potrebbe sembrare una rappresentazione iperbolica, ma se si visita The Worst Room, un Tumblr che raccoglie alcuni dei più terrificanti annunci della città, si trova anche di peggio. Per novecento dollari, a Brooklyn, puoi vivere in una stanza senza finestre che il padrone di casa usa come scarpiera. Per ottocento puoi dormire su una poltrona reclinabile nella sala d’aspetto di un dentista.

Dove abbiamo sbagliato?

La scrittrice Jia Tolentino, che nella mia visione distorta della realtà è una che ce l’ha fatta, mentre aspettava il suo primo figlio ha postato su Instagram una foto della cameretta che stava allestendo a casa sua, sempre a Brooklyn: la culla stava giusta giusta dentro l’armadio a muro, vicino ai cappotti.

Ora, nel bene e nel male, Milano non è New York, ma quelli di noi che hanno deciso di viverci – qualora avessimo mai la malaugurata idea di procreare – si dovranno comunque adeguare a spazi ridotti, affitti esosi e armadi riconvertiti. Il che sul lungo termine comporterà anche una serie di conseguenze sulla qualità della vita di coppia della nostra generazione, soprattutto se si prende per valida l’equazione di Louis CK (in cui io credo con tutta me stessa): amore + tempo - distanza = odio.

Dove abbiamo sbagliato? Il primo errore è stato non considerare una carriera da agente immobiliare, a quanto pare. Le donne di Selling Sunset guadagnano commissioni a sei cifre e la loro preparazione non è di certo quella di un cardiochirurgo.

Senza nulla

Lo spiega bene Christine, la “cattiva” della serie: «Praticamente vai dal medico, ti imbottisci di Adderall, ti metti a studiare per tre mesi e fai il test». Ecco fatto. Quello che è certo è che stiamo andando verso un futuro in cui non possederemo più niente.

Non solo le case, ma macchine, biciclette, monopattini. Libri, film e dischi non ci appartengono più, siamo abbonati a tutto e non ci rimarrà niente. La buona notizia è che se non hai niente non ti serve tanto spazio. Una poltrona reclinabile basta e avanza.


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