Un profeta dai mille volti: così gli storici vedono Maometto

Un’opera uscita in Francia sta facendo notizia fin dal titolo, Il Maometto degli storici (Le Mahomet des historiens), perché affronta sul piano appunto storico il difficile nodo costituito dal fondatore dell’islam. Autori delle duemila pagine appena pubblicate in due volumi sono cinquanta specialisti di diverse nazionalità, coordinati per cinque anni da due studiosi autorevoli: Mohammed Ali Amir-Moezzi, iraniano naturalizzato francese, e lo statunitense John Tolan. Nel quinquennio precedente lo stesso Amir-Moezzi aveva diretto insieme al francese Guillaume Dye un’impresa analoga e monumentale, Le Coran des historiens, un best seller di dodicimila copie. In oltre tremila pagine il testo sacro dell’islam – tradotto e commentato nel secondo volume, con il terzo dedicato per intero alla bibliografia e alle fonti – viene presentato da ventotto studiosi, anche in questo caso da un punto di vista storico. Si aggiunge un altro fatto. A pubblicare entrambe le opere è stata la più prestigiosa editrice cattolica di lingua francese, Les Éditions du Cerf, che appartengono all’ordine domenicano, hanno in catalogo opere imprescindibili e dal 2013 – altro dettaglio significativo – sono guidate da un ortodosso, Jean-François Colosimo, scrittore e intellettuale brillante. La (millenaria) passione secondo Maria: viaggio nel mistero femminile del Vangelo Pluralità di nomi Perché nell’opera si è scelta la forma francese del nome, Mahomet, invece dell’arabo Muhammad? Nell’introduzione generale i due direttori spiegano che si tratta di quella più corrente e riconoscibile. Sin dalla fine dell’XI secolo: si trova infatti già nella Chanson de Roland, insieme alle varianti Mahumet e Mahum. Nelle duemila pagine ora pubblicate il nome ricorre nelle lingue più diverse, a seconda dei testi esaminati: Mamed o Mouamed in greco, Machometus (con altre forme) in latino, Mehmet in turco, ma anche Mammad in diversi paesi dell’oriente musulmano e Mamadou in un buon numero di lingue africane. Va naturalmente aggiunto l’italiano Maometto, attestato nel ventottesimo canto dell’Inferno di Dante. La pluralità dei nomi rispecchia ovviamente la diffusione dell’islam, che appare con chiarezza nei diversi contributi dell’opera e contrasta con l’esiguità dei dati storici originari sulla figura del suo fondatore. Già una trentina d’anni fa l’antropologa Jacqueline Chabbi aveva mostrato «l’impossibilità di stabilire, secondo i metodi critici, una biografia storica di Maometto tanto le fonti su di lui sono tardive, contraddittorie, piene di approssimazioni e di errori, teologicamente e politicamente orientate»: perché appartenenti a epoche successive e dipendenti da movimenti religiosi divergenti. «I tratti di questo profeta mi si presentano in modo confuso, attraverso una religiosa nuvola d’incenso» scriveva due secoli e mezzo fa, in piena temperie illuminista, Edward Gibbon. E in una lunga intervista con i due direttori pubblicata su Le Monde, Amir-Moezzi ha affermato che «quanto lo storico può sapere in modo sicuro su Maometto non supera le due pagine». Sessant’anni dalla Nostra aetate, il travagliato rapporto tra cattolici ed ebrei Fonti e ricerca storica Lo studioso ha aggiunto però tratti individuati dalla ricerca storica. Dal Corano e dalle fonti contemporanee emerge l’immagine di «un profeta, nel senso biblico del termine, comparso in Arabia occidentale alla fine del VI secolo, portatore di un messaggio che numerosi storici qualificano come biblico, che si colloca cioè nella tradizione ebraico-cristiana». Gli ha fatto eco Tolan sottolineando come dal testo sacro islamico emerga una popolazione «larghissimamente familiarizzata con l’universo monoteista». Il Corano si riferisce infatti di continuo alle storie della Bibbia, «in particolare quelle dei profeti dell’Antico e del Nuovo Testamento, in modo allusivo, come se esse fossero già note a tutti». L’opera affronta l’insieme delle fonti su Maometto, musulmane e non musulmane. Vengono così esaminati, oltre al Corano, la molteplice tradizione biografica (detta sira) sul profeta, i suoi detti, le rappresentazioni ebraiche e cristiane – dunque lo sguardo degli altri – dagli inizi medievali all’età moderna, quando finalmente anche il mondo islamico inizia a essere considerato storicamente. Importanti sono anche le diverse tradizioni mistiche, la letteratura e il cinema, dove il profeta appare per la prima volta nel 1911, sia pure di sfuggita: in un lungometraggio italiano sull’Inferno dantesco diretto da Francesco Bertolini, Giuseppe De Liguoro e Adolfo Padovan. Il quadro che risulta dall’opera è ovviamente variegato, almeno quanto l’immenso mondo costituito dall’islam: metà dei musulmani vivono infatti in Pakistan, India e Bangladesh, e il paese musulmano più popoloso è l’Indonesia. Fin dai primi tempi, sullo stesso Corano vi sono stati dibattiti e persino conflitti armati finché – come ricorda Amir-Moezzi – nel X secolo è stato adottato il testo “ufficiale”. Sulla figura del profeta Tolan vede «una linea di frattura importante» tra i legalisti, per i quali Maometto ha trasmesso soprattutto delle regole provenienti da Dio, e gli spiritualisti, in particolare i sufi, che a partire dal IX secolo «invitano a ritrovare la spiritualità». Tre, secondo i sufi, sono le vesti che portava il profeta: del combattimento, della legge e quella della povertà. Quella scelta dal sufismo è la terza, «che va nel senso di una purificazione di sé stessi, di un cammino spirituale, lasciando da parte il profeta dei legisti e dei guerrieri. I jihadisti, al contrario, fanno la scelta della veste di combattimento». Un santo irresistibile, tutti pazzi per san Francesco La frattura sciiti-sunniti La frattura è la stessa che oggi percorre il mondo islamico, diviso per di più tra una larghissima maggioranza sunnita e la minoranza sciita. Per la prima, secondo Amir-Moezzi, la luce del profeta si trasmette attraverso il libro del Corano, mentre gli sciiti credono che «la sua luce passa tramite gli imam». Inoltre l’islam non conosce un’autorità centrale: la stessa moschea cairota di Al-Azhar, autorità accademica sunnita, è riconosciuta da «un buon numero di sunniti, ma non da tutti». Amir-Moezzi e Tolan sono perfettamente coscienti di un fatto innegabile e di una diversità storica delle tradizioni islamiche: «L’orientalismo scientifico» e i suoi metodi critici «accompagnano una storia occidentale che ha conosciuto l’Umanesimo, il Rinascimento, i Lumi, la Dichiarazione dei diritti dell’uomo, la separazione tra chiesa e stato» scrivono. Ma sono altrettanto convinti che «i suoi migliori frutti intellettuali» sono universali. Netto è dunque il rifiuto di quello che «ferisce crudelmente la nostra attualità, e cioè la strumentalizzazione politica e violenta del religioso, la politicizzazione di Dio e la divinizzazione del potere» dei suoi detentori. L’obiettivo dell’opera è storico – ribadiscono i due direttori – ma a questo non è estraneo un intento «civico», e cioè «un nuovo sguardo» su sé stessi e sugli altri portatore «di una migliore comprensione e di una maggiore conoscenza mutua». In questo senso Le Mahomet des historiens, pur nella diversità delle prospettive e dei risultati, appare un contributo importante e nuovo. Dal vescovo Policarpo a Pelé, il culto trasversale delle “sacre ossa”