La storia è disseminata di date fittizie. La fondazione di Roma, la fine dell’Impero romano, la nascita del mondo moderno ci appaiono come eventi subitanei, databili, mentre sappiamo che hanno costituito fenomeni al rallentatore, fatti di lenti accumuli. In questa storia invece abbiamo una data. Che non è più quella indefinita dei non ritracciabili pazienti zero.

È il 9 marzo 2020.

Un qui e ora perfettamente definito, il giorno in cui inizia il contenimento. Quando il capo del governo italiano, Giuseppe Conte, ha ordinato una quarantena nazionale, limitando il movimento della popolazione tranne che per necessità, lavoro e cure sanitarie, in risposta alla crescente pandemia di COVID-19 nel paese.

Un battito d’ali d’una farfalla, o forse di un pipistrello, in Cina provoca una tempesta a Codogno, a Lodi, a Bergamo, a Brescia. 53 giorni hanno cambiato la storia del mondo. Come lo conoscevamo. Alle porte di Milano. Quasi 35mila decessi in Italia di cui la metà in Lombardia.

In quei giorni del lockdown, terminato il 3 maggio, il giorno dell’inizio della Fase 2, tutti cercavamo di trovare un senso a questa storia che un senso non ce l’ha. E questo ce l’aveva già spiegato Vasco.

Particolare di una vignetta di Dario Campagna

Difficile raccontarla questa storia, manca la struttura narrativa, la cornice, perfino il fine, il colpevole, che certamente non è soltanto il virus. E la fine. Insomma per ordinare il caos, manca lo storytelling. Direbbe Baricco. Ogni evento eccezionale risemantizza le categorie temporali. Prima e dopo. L’irruzione di un evento nel continuum della storia modifica la visione del futuro. Ma anche il passato sarà interpretato alla luce di ciò che sta succedendo. Rivisitato si trova incaricato di un nuovo senso, perché si cercano i segni precursori che spieghino ciò che è accaduto.

Eppure c’erano alcuni punti salienti, alcune caratteristiche inedite. Un evento biologico irreversibile. Sospensione di abitudini fin lì ritenute “diritti”. La materia oscura del virus che era origine di tutto. Paura. Di ammalarsi e di morire. Radicale rimozione della morte. E della violenza sulla natura. Che non è né madre, né matrigna. Alla natura di noi non importa nulla. Siamo animali come gli altri. Non c’è un disegno e la cultura laica non sa spiegare che il virus fa il virus. Si fotocopia e fa il suo lavoro di diffusione e mutazione per propagare il proprio genoma. Tecnologia, globalizzazione, mercato, lavoro: in sintesi, ciò che definiamo progresso si trova improvvisamente a che fare con l’inaspettato. Pensando di controllare tutto, scopriamo di non controllare niente, quando un evento biologico esprime la sua rivolta.

E allora siamo stati parcheggiati in un intervallo. Sospeso. Interrogativo. Opaco. Non è la pigrizia di Oblomov, né l’avrei preferenza di no di Bartleby, lo scrivano di Melville, né la pigrizia gloriosa di cui parla il semiologo francese Roland Barthes, facendo l’esempio del lavoro a maglia. Un po’ come le “rose quadrate”, le presine cucite dalla virologa super star Ilaria Capua.

Quell’intervallo produce molta stanchezza. Altroché gli appelli manageriali al ritorno in ufficio. Spesso in edifici privi di finestre e con impianti di aereazione chissà quando e come manotenuti. Lottare per sopravvivere al virus ci ha davvero ammazzato di stanchezza. Incombe la domanda radicale: quanti morti consideriamo compatibili con la necessità di riaccendere i motori?

In quei giorni, mi sono ammazzato di smart working, nel mio studio e nel privilegio della terrazza della mia casa di Modena. In questa storia molto meglio la mappa mentale e l’esperienza delle città di provincia che non quella delle metropoli. Ho lavorato ai nuovi libri di due bravissime scienziate italiane, stimate in tutto il mondo, Ilaria Capua e Rita Cucchiara; ho aiutato a concepire una nuova casa editrice digitale, Euridice, fondata da Laura Ceccacci, elegante progetto di recupero digitale di classici italiani e non dell’Ottocento e dei primi del Novecento: da Carolina Invernizio a Gramsci, che la considerava una gallina, da De Amicis a Chesterton.

Ho pubblicato e-book per Il dondolo, la casa editrice digitale e civica che dirigo per il Comune di Modena. Ho fatto molte presentazioni in streaming, tra cui quella della raccolta del meglio degli articoli di Edmondo Berselli, Cabaret Italia di Mondadori, che ho curato assieme alla moglie Marzia per il decennale della sua scomparsa. E quella per festeggiare gli ottant’anni di Francesco Guccini, cui ha voluto partecipare anche il Liga. Sfigato anche dopo dieci anni dalla sua morte Edmondo, che è stato il più sfacciatamente intelligente editorialista italiano, il suo libro esce quando le librerie sono chiuse. E pochi gli e-reader nelle case.

Berselli è l’autore del migliore incipit della letteratura italiana di questo secolo. Scritto nel 2006 in Venerati maestri. Dice «Nei momenti di malumore, sempre più frequenti, io confesso che non mi piace nulla». E più malumore di così. È morto anche Alberto Arbasino. Il più importante scrittore italiano. È stato Edmondo Berselli a osservare nel suo laboratorio di idee e isolare per primo la formula scientifica del paradigma Arbasino: «In Italia c'è un momento stregato in cui si passa dalla categoria di "bella promessa" a quella di "solito stronzo". Soltanto a pochi fortunati l'età concede poi di accedere alla dignità di "venerato maestro".» Solo Arbasino è riuscito a fare di più: «Ossia il passaggio diretto dallo status di bella promessa a quello di venerato maestro».

Foto LaPresse

Ancora malumore. È morto un altro venerato maestro. Paolo Fabbri. Un amico, prima che un maestro, di cui ricordo la voce, il sorriso, l’energia. Era il maggiore semiologo italiano, era già morto una volta, fatto assassinare da briganti nelle pagine di Il nome della rosa di Umberto Eco, sotto le mentite spoglie di Paolo da Rimini, doctor agraphicus. Coltissimo e intelligentissimo, Paolo Fabbri ha sedotto con le sue lezioni platee di studenti in tutto il mondo, avviandole se non alla semiotica a letture sterminate. A pensieri, relazioni e rizomi nutrientissimi, capaci di fare rete, di rompere i confini fra le discipline, raccogliere le sfide. Pensare in grande: viaggiando tra tutti i saperi e le culture. Impensabile, tra le sue parole, un’idea come quella di confinamento.

Altro malumore. È morto Mariolino Corso, il piede sinistro di Dio, protagonista assoluto di Il più mancino dei tiri, il libro cult di Berselli. Il Covid non risparmia neppure l’epistemologia e muore il maggiore filosofo della scienza italiano, Giulio Giorello, uno capace di studiare la matematica, la fisica e la filosofia e di passare dalla filosofia liberale di Stuart Mill a quella di Topolino, talmente laico e libero di testa da prendere sul serio, ed esserne il primo testimone sul Corriere della sera, il primo romanzo di Sofia Viscardi. Muore Ennio Morricone, e il malumore è un’ottima occasione per rivedere la sua trilogia western e i giovani De Niro e Woods di C’era una volta in America. (Ci sono anche Danny Aiello e Mario Brega).

Infine, ho accettato di collaborare a Domani. Oggi è un titolo perfetto.

Per una delle scienziate, che non vive in Italia, ho scritto in quei giorni un piccolo rapporto su cosa stesse accadendo da noi, soprattutto sul piano della comunicazione. Il giornale della mia città, la Gazzetta di Modena, ne ha pubblicato un pezzetto.

Eccone un altro. È una istantanea del malumore e della ricerca di senso di quei giorni. Salvati da un po’ di “Modena state of Mind”.

La pandemia ha creato un mondo alla rovescia, dove tutto è ribaltato in una specie di “carnevale triste”: le regioni ricche del Nord, Lombardia in testa, sono per la prima volta il luogo della sfiga, assieme a Veneto e Emilia più di quelle più povere del Sud, tradizionalmente più sfigate.

Milano la capitale smart del paese, quella che non si ferma secondo il credo e lo stile anni Ottanta dei pubblicitari, è diventata un luogo spettrale e inospitale. Salta il più importante dei suoi eventi, il Salone del mobile e del design. Le Olimpiadi si trasferiscono d’anno, cominciando a rimuovere il 2020. I calciatori planetari coraggiosamente scappano coi loro aerei privati. Si è fermato l’orizzonte del calcio, calendario e liturgia rituale che scandisce in campionati e coppe la nostra vita, ultima soglia della fede, religione di un Occidente ormai completamente scristianizzato.

Le parole cambiano d’umore e di senso. Pensate al rovesciamento semantico che accade con gli aggettivi /positivo/ e /virale/. “Ho beccato un virus” si trasferisce da sciagura tecnologica e informatica relativa al computer a terrore biologico relativo al corpo. Mentre la positività accerta il contatto con l’infezione.

E poi il diffondersi di metafore belliche, come unico linguaggio di riferimento. La trincea dei medici, la Caporetto dell’organizzazione, il nemico invisibile, la guerra a mani nude, la linea del Piave, la ricostruzione.

Parole leader del nuovo vocabolario: contagio, pandemia, diffusore, sintomatico, cluster, contenimento, paziente zero, zona rossa, droplet, picco, lockdown, test sierologico, tamponi, respiratori, mascherine, immunità, zoonosi. Le antichissime e letterarie untore e peste, la nuovissima asintomatico, una figura distopica un po’ come lo zombie: né sano, né malato. E dalla scienza spillover, il salto di specie, la causa di tutti i guai, che ci inchioda al nostro rapporto irresponsabile e violento con la natura.

Si rovescia anche la gerarchia sociale delle professioni: ora un infermiere è certamente più figo di un influencer, altra parola che allude all’influenza. I virologi, che nessuno conosceva, sono i nuovi protagonisti di un’incessante comunicazione digitale e televisiva. Ognuno occupa uno spazio mediale. Vincono Galli della Statale di Milano: burbero, affidabile, competente, razionale. Non ha mai sbagliato un colpo. Il medico che tutti vorrebbero. E Capua, altrettanto competente e razionale, ma con l’allure della direzione del centro di ricerca dell’Università della Florida e la seduzione di un nuovo ruolo femminile, fatto di un’intelligenza che domina grandi studi, visione, passione, tenacia, simpatia, fascino, che ne fanno una scienziata di livello mondiale che padroneggia la materia e la scena. Ha suggerito una maggiore resistenza delle donne al virus. Ha lanciato il messaggio definitivo: è l’occasione per sottrarre potere agli uomini.

Il papa scivola in comunicazione e sorprendentemente cita Fabio Fazio. Piuttosto di sant’Agostino. Poi recupera, si riprende l’intera scena in San Pietro surclassando qualsiasi inquadratura possibile del miglior Sorrentino.

La distanza fra le persone diventa la migliore virtù etica e sociale. Censurato il contatto dei corpi. L'isolamento è meglio della socialità. Stare a casa è meglio che uscire.

La rete sostituisce la piazza. Il digitale occupa l’intera scena mediatica: prende il posto del cartaceo, dei concerti, dei festival, delle presentazioni e di qualsiasi evento possibile. Skype, Zoom, Facetime sostituiscono il telefono e irrompono in casa anche mentre sei in pigiama, rovesciano i confini di pubblico e privato, magari sei sulla tazza del cesso. La libreria, in un paese che, si sa, legge molto poco, è il set davanti a cui tutti parlano. Si rivedono inquadrate da Skype vecchie enciclopedie: il blu del Milione, il verde della Storia d’Italia, addirittura il bordeaux dell’Enciclopedia che fece fallire Einaudi. Caterina Balivo, assieme al marito finanziere e scrittore Guido Brera, inventa sul suo account Instagram il migliore programma culturale della rete, scritto già nella lingua digitale del futuro, grandi scrittori e intellettuali fanno la fila per partecipare neanche fosse Fazio dei tempi d’oro. La loro intelligente innovazione ha la sintassi adeguata e la metrica veloce necessaria al digitale.

Si canta Azzurro e Il cielo è sempre più blu sui balconi e nei salotti in diretta nelle stories di Instagram. Dress code: la felpa al Nord ancora freddo, da Roma in giù t-shirt. Meglio se bianca. L’appello alla lettura è costante, insistente, insopportabile. Si consiglia e si legge. Meglio se il titolo suona oggi disforico e terrificante: perfetti I miserabili e Delitto e castigo. La peste, Cecità, 1984 primeggiano nella nuova ribaltata classifica dei libri venduti dagli store digitali come unico canale. Il magnifico Spillover di David Quammen, che l’Adelphi di Roberto Calasso, sempre i più bravi, aveva già in catalogo, è l’unico libro utile da leggere per sapere e capire.

Facebook, ormai sfiancato e noioso come una domenica pomeriggio di Raiuno con zia Mara, accoglie un perenne appello al farmaco dei classici. Chiunque promuove libri che nessuno può non dico leggere, ma comprare perché le librerie sono chiuse da decreto. Gli ebook sono oggi i libri più adeguati allo spirito del tempo. Ma chi ha investito in questi anni su alfabetizzazione e lettura digitale? La scarsità degli e-reader nelle case allude a quella dei respiratori negli ospedali. I più fighi come Jovanotti, Fabio Volo o l’ex bomber Bobo Vieri, che chiacchiera con Totti, Inzaghi, Cassano o Materazzi, sperimentano le dirette sulle stories del più contemporaneo Instagram. I giovani per sfuggire i vecchi si rifugiano dentro Tik Tok, che è dei cinesi. Nessuno ha ancora pensato di dare la colpa né a Mauro, né soprattutto a Fabrizio: Corona. Il capro espiatorio perfetto.

Al di là delle angosce per il contagio in sé, mi sembra che abbiamo perduto ogni punto di riferimento: è tutto al contrario.

Una delle cose che più sta pesando alla gente è l’imposizione di tenere la distanza, anche fra i familiari. Proibito andare a trovare e genitori e nonni guai mai. Ogni distanza ha un significato. La prossemica è la disciplina semiotica che la studia. Tenersi a distanza significa allontanarsi anche affettivamente, e rimodulare la tastiera del nostro repertorio passionale. Quel che sta succedendo, dunque, è che cambiando le distanze cambiano pure i significati. Il rovescio della solitudine della vita dei single, è invece il rovescio della distanza, cioè la vicinanza coatta delle coppie e dei nuclei familiari. Lo spazio si restringe, intimità e spazio dell’altro s’infrangono e confliggono nella prigionia degli arresti domiciliari.

Non era mai accaduto nella storia che l’intero corpo sociale del pianeta sperimentasse le regole della prigionia. Un folle esperimento biopolitico, ci manca il Foucault di Sorvegliare e punire per descriverlo.

E allora tòla dòlza, versione emiliana del take it easy, è forse la mappa mentale che meglio allude alla pigrizia gloriosa cui alludeva Barthes. Si chiama così uno dei nuovi menù di Massimo Bottura. Durante il lockdown la sua brigata ha lavorato producendo fantastici piatti takeaway. Tra i miracoli del Modena state of mind per 30 euro per due portate chiunque ha potuto credere di cucinare come il migliore cuoco del mondo, che cucinava per milioni di followers americani con le dirette Instagram Kitchen Quarantine, format inventato dalla figlia Alexa. C’era gioia di vivere, allegria e musica in quei video. Come sono loro, i quattro Bottura. Così come c’era voglia di vivere nel terminare la cottura di quelle ricette, già preparate in tre facili mosse. E telefonare agli sconsolati e depressi amici milanesi e, con un pizzico di sadica Schadenfreude, per il collasso dello storytelling di Milano città più figa del mondo, per dire loro: sai sto mangiando i tortellini in crema di parmigiano o i fusilli di Cetara con salsa verde e acciughe e l’Emilia burger di Massimo Bottura. E bevo lambrusco.

P.S.

Durante quei giorni i migliori semiotici italiani hanno tenuto un diario, Diario semiotico del Coronavirus, per pantografare quell’esperienza. È molto interessante, si trova qui.

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