Una delle prime cose che si imparano ai corsi per sommelier è distinguere il colore del vino. Paglierino, verdolino, chiaretto, aranciato, rubino, porpora, granato. E che ogni bicchiere ha il suo grado di limpidezza, consistenza ed effervescenza nel caso degli spumanti. Il naso, dicono a volte le associazioni di sommelier, racconta molto più di quello che può dirti il palato.

Un vino può essere carente di intensità o ampio in complessità, e le descrizioni si sprecano: vinoso, floreale, fruttato, erbaceo, etereo, franco, fragrante, speziato e minerale, termini che spesso vengono pronunciati a sproposito. Immersi in questa dialettica è difficile trovare la risposta a una domanda: il vino può essere racchiuso in quattro regolette da tramandare di studente in studente? Davvero il paese con il maggior numero di vitigni autoctoni al mondo (ben 545), com’è l’Italia, può accontentarsi di una simile schematizzazione terminologica? Eppure è così.

Questi criteri vengono utilizzati anche per giudicare le bottiglie che vogliono vantare i contrassegni Doc o Docg. La procedura è lunga, il vino deve rispettare le regole del disciplinare, essere analizzato chimicamente e assaggiato da una commissione di degustazione. Se supera i tre passaggi può esporre la fascetta, altrimenti no. Ma è proprio nell’ultimo passaggio che molti vini vengono bocciati. A volte ingiustamente.

Regole vecchie

È il caso della cantina umbra Raína e del suo vignaiolo Francesco Mariani, lo ha ricordato Jacopo Cossater su questo giornale, che ha deciso di rinunciare alla certificazione per il suo Trebbiano spoletino, dopo che, per più volte, la commissione lo ha respinto per “anomalie” all’olfatto e al gusto. Mariani non è il primo a prendere una decisione simile, rischiosa perché può incidere sulle vendite; i marchi Doc e Docg sono un traino importante. Eppure quell’etichetta non è insufficiente, anzi, è una delle migliori interpretazioni presenti in regione.

Sono le regole semantiche e barocche che vigono nel mondo del vino a essere vecchie e parziali. Quelle sì che sono insufficienti a raccontare una viticoltura che negli ultimi vent’anni è cambiata profondamente, che ha immesso nel mercato nuovi vini, diversi e meno omologati. Un discorso che, è sempre bene specificare, non riguarda i vini scorretti o con puzze di ogni tipo. Insomma, sarebbe ora di finirla con i corsi infarciti di un linguaggio che in cantina non si parla, così come è necessario riformare le commissioni che utilizzano criteri troppo limitati per i tempi in cui viviamo.

Read more!

© Riproduzione riservata