È uscita per Einaudi una nuova edizione della Bibbia, e questa ne è la recensione. Non è cosa di tutti i giorni recensire la Bibbia, ma (se mi è concessa una battuta) non sarà né il primo né l’ultimo libro che viene recensito senza venire letto per intero.

Il caso però vuole che, invece, io l’abbia letto per intero: non ancora in questa edizione diretta da Enzo Bianchi, ma in quella della Cei, di fatto l’unica a cui il lettore non esperto né avventuroso abbia finora avuto accesso in Italia.

L’ho letta nel corso di un anno intero, quando Carmelo Rifici, regista e direttore del Lac di Lugano, tra 2019 e 2020 propose a me e ad altri tre autori un lavoro teatrale centrato proprio sulla Bibbia. A ognuno di noi sarebbe stato chiesto di scrivere non tanto un impossibile “adattamento” della Bibbia o di una sua parte, ma il resoconto teatrale di un personale attraversamento: una peripezia individuale attraverso le Scritture.

Per aiutarci a perlustrare non tanto il materiale biblico in sé quanto la diversificazione dei punti di vista possibili, ci furono fatti incontrare alcuni studiosi biblici. Il primo di questi fu uno tra i più importanti studiosi della Torah, allievo del leggendario monsieur Chouchani, che – in una sala conferenze affacciata sul lago in una giornata di una chiarezza quasi soprannaturale – ci disse subito che di Bibbia non voleva neanche sentir parlare, perché persino quel nome, che per noi ingenui era un titolo, per lui era la sintesi di una formidabile appropriazione culturale.

Un travisamento filologico, linguistico, storico, critico e ovviamente religioso compiuto dai cristiani nella più spregiudicata malafede. Bastava, a suo dire, una lettura un filo accurata di un qualunque brano della Genesi o dei Profeti per rendersi conto che la traduzione era, come nelle migliore delle formule, una tenace manomissione della verità. E guai, ovviamente, a parlare di vecchio o di nuovo Testamento: i testamenti li lasciano i morti, mentre Dio – quel dio? – è vivo, e lotta insieme a noi.

Esperienza mai neutra

Questo per dire che, in una qualsiasi fantomatica recensione della Bibbia, non si potrà mai prescindere dal fatto che la Bibbia è sempre a suo modo un’impostura, un abuso, così come abusive sono forse tutte le narrazioni. La Bibbia è stata per secoli la grande operazione occidentale di monopolio sul nome di Dio, il tentativo di porsi come la sua unica biografia autorizzata.

Da noi, poi, il marchio della Cei è stato sempre un equivalente della spunta blu su Twitter, utile soprattutto a far diffidare di ogni imitazione. Il fatto che oggi ne esca una “nuova edizione”, per di più per quello che è ancora il più prestigioso editore italiano, sembra confermare che questo monopolio inizia forse a tramontare. Che la Bibbia, insomma, inizia ad essere a tutti gli effetti un testo e non il Testo.

D’altronde, finora la Bibbia è sempre stato questo doppio dispositivo: ciò che è, e ciò che (si) pretende che sia. Per nessun occidentale la consultazione della Bibbia può essere un’esperienza neutra: i credenti sono i credenti di quel dio, ma anche i non credenti sono, in fin dei conti, i non credenti di quel dio, ed è verso quel dio, e non un altro, che tributiamo la nostra indifferenza.

Oggi, forse per la prima volta, questo racconto di racconti esce dalla pronuncia liturgica, da un flusso dall’alto verso il basso, e si offre in una forma diversa, più ruvida, più ispida, anche più sporca e contaminata, privata dalla solennità dell’altare. In qualche modo anche più esitante, più cauta, più prudente. Si sfila dalla pretesa della rivelazione e offre al lettore dei percorsi, l’ingresso in un labirinto di storie.

Una storia d’amore

La Bibbia, si sa, è un insieme di libri, una sorta di biblioteca raccolta in un unico corpus secondo una particolare configurazione storica. È come se dal patrimonio della Grecia antica si prendessero un po’ di tragedia, un po’ di storici, di poeti lirici, e si montasse quell’insieme definendolo l’Insieme.

Nessuna selezione è mai neutra, e questa lo è meno che mai. Quell’insieme è una storia, ed è l’unica cosa forse che un laico privo di strumenti come me possa dire sulla Bibbia: che ogni bibbia, compresa questa, è un abuso, un abuso straordinario e incoerente, folle come può esserlo qualunque tentativo di tracciare la storia di un rapporto tra un dio e l’uomo.

Da qualunque parte la si guardi, la Bibbia è questo: una drammaturgia del rapporto tra l’umano e il divino. Un divino che ha, a volte, un volto severo, pignolo, vendicativo, e che altre si rivela in forme d’amore diverse e sconvolgenti.

Un amore erotico (cito dalla nuova traduzione Einaudi): «Come un melo tra alberi selvatici, / ecco il mio amante tra i giovani. / Desidero giacere alla sua ombra, / assaporare il suo frutto delizioso al mio palato. / Sì, mi ha fatto venire nella sua cantina, / ha inalberato su di me il vessillo d’amore!». Un amore a volte ermetico e crudele, come quello che domina il libro di Giobbe o il Qohelet. Un amore sconfinatamente materno che attraversa certi libri profetici, come quello di Isaia: «Sion diceva – il Signore mi ha abbandonato, / il Signore si è dimenticato di me! / Ma può una donna dimenticare il suo bambino? / Cessare di amare il figlio del suo ventre? / Anche se lei si dimenticasse, io non mi dimenticherò di te. / Ecco, ti ho inciso sulle mie palme, / le tue fattezze sono sempre davanti a me».

Nella Bibbia si esplorano i modi di un amore che ancora oggi, forse, governa ciò che noi intendiamo per amore. Fedeltà, possesso, sacrificio, esclusività, protezione, accompagnamento, cura, godimento sono ancora, nel bene o nel male, i cardini della nostra esperienza amorosa, che dalla Bibbia non ha certo imparato l’arte del distacco e della lontananza, ma anzi quella della compromissione, del coinvolgimento, della contaminazione: il dio della Bibbia è un dio che entra in gioco, che mette alla prova, che si sporca sistematicamente con le cose umane, con una carnalità che  – lo testimonia san Paolo – disgustava i Greci, e che è però forse uno dei segreti del suo “successo”.

Come ha intuito Lacan, chi governa i nomi del Padre accede alla realtà del proprio desiderio, e questo la Bibbia ha indubbiamente fatto nel corso dei secoli: si è appropriata, guidandoli, dei nomi del desiderio. La Bibbia è, anche, a suo modo, un’enciclopedia del desiderio, un vocabolario amoroso: un lessico famigliare.

Il primo cervello

Lo è davvero? Una nuova edizione “laica” della Bibbia non può che funzionare come una verifica di questo. Un termometro che potrà dirci innanzitutto se davvero, come dicono alcuni e come a volte sembra, la religione cristiana confessionale ha smesso di essere un motore di energia culturale, e che la luce che ancora ne vediamo è solo quella di una stella morta.

Se così fosse, la Bibbia non avrebbe però comunque terminato il suo tempo: avrebbe chiuso una stagione e ne starebbe invece aprendo un’altra. Una stagione in cui non sarà più necessaria, forse, quella biforcazione che Einaudi le appone fin dalla fascetta – una traduzione “per i credenti e per i laici” – ma in cui la Bibbia possa diventare un luogo di educazione, di conflitto fertile, di sogno e desiderio e di nominazione del mistero, com’è sempre stato per la grande letteratura.

Da Libro a libri, da testo pluriconfessionale a nostalgico motore immobile, la Bibbia può diventare oggi il più primitivo dei cervelli d’occidente: un ultrasuono che non possiamo (e forse non dobbiamo) smettere di sentire.

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