Ha suonato. Suonato sempre, per tutta la vita. È stato un grande pianista, un compositore, ma soprattutto un innovatore della musica leggera italiana. Stiamo parlando di Renato Carosone. Non solo Tu vuò fa l’americano, ma tanto, tantissimo altro. Una vita artistica che è un pezzo della storia e del costume di questo paese. Una vita avventurosa, un meraviglioso film che ha attraversato l’Italia del fascismo, il dopoguerra e il boom economico, fino all’alba del Duemila, che la Rai manderà in onda il prossimo 18 marzo su Rai 1 in prima serata. Nel film prodotto da Groenlandia insieme a Rai-Fiction, a interpretare Carosone è il giovanissimo Eduardo Scarpetta («Renato Carosone è il Maradona della musica»), mentre Vincenzo Nemolato è Gegé Di Giacomo, l’amico e batterista-fantasista di Renato. Due volti e un cast più che credibile per Carosello Carosone, diretto da Lucio Pellegrini. Al maestro Stefano Bollani la colonna sonora. Scelta felicissima, perché Bollani si è costruito come talento musicale adorando Carosone. «Avevo undici anni e gli scrissi una lettera – racconta – mandandogli anche una cassetta con le sue canzoni cantate e suonate da me. Mi rispose dandomi un consiglio: qualsiasi cosa tu voglia fare nel campo della musica, studia il blues che è alla base di tutto».

Da Napoli al mondo

Renato nasce a Napoli il 3 gennaio del 1920. In una casa a due passi da piazza Mercato. Chiassoso luogo di commerci, voci, rumori, canti. Il ritmo impresso nel dna dei napoletani “veraci”. Il resto lo fa un vecchio pianoforte appartenuto a sua madre. È qui che il giovane comincia a “sudare sui tasti”, prima di approdare al conservatorio di San Pietro a Majella. Il diploma a diciassette anni e le lunghe attese alla galleria Umberto I. Ai tempi ufficio all’aperto di cantanti, sciantose, macchiettisti e musicanti. Tutti alla ricerca di un ingaggio per una serata. Anche all’estero. In quella parte dell’Africa diventata colonia dell’impero mussoliniano. È qui che Carosone si trasferisce a diciassette anni per esibirsi nei locali. Massaua, Addis Abeba, Asmara. Canzoni napoletane del repertorio classico, virtuosismi al pianoforte, e soprattutto la musicalità africana e il jazz, il nuovo ritmo appreso dai musicisti inglesi e americani arrivati in Africa dopo il crollo dell’impero fascista.

Una gavetta dura che stimola la frenesia di Carosone che la musica non voleva solo suonarla, ma rivoluzionarla. Gli anni “africani” e quelli successivi del ritorno in una Italia distrutta dalla guerra, Renato Carosone li racconterà con crudezza nella sua Lettera di un pianista. «Le altre note...le ho imparate con fatica, con rabbia, camminando a piccoli passi su quel sentiero irto di difficoltà, quel sentiero di ebano e avorio. Un passo bianco e un passo nero, uno bianco e uno nero». Italia anni Cinquanta, Italia del boom economico. Italia che vuole cantare. Dai night club alla tv che iniziava a entrare nei tinelli degli italiani, dalle grandi case discografiche con sede a Milano, fino alle tournée in giro per il mondo. E le classifiche dei dischi venduti. Primo in Spagna, Brasile, Uruguay. In testa per tre volte nelle classiche in Usa. Un miracolo per un italiano che non cantava testi in inglese.

Un Torero a New York

Sì, una vita che è un film. Carosone l’America l’aveva sempre sognata, ma mai avrebbe immaginato che una sua canzone, Torero, sarebbe stata cantata tra New York e Chicago in 32 versioni, e tradotta in dodici lingue. Il testo di Nicola Salerno, il suo paroliere Nisa, è la storia strampalata di un ragazzo napoletano fissato con la Spagna e le arene dei toreador. «Comme fanno a Santafé. Comme fanno ad Hollivud» e con questa scusa «non studia più». La musica è spagnoleggiante, mille i richiami alle sonorità napoletane. Un felicissimo misto, proprio come il picchiatello protagonista della canzone che con le nacchere in tasca va a ballare «mescolando bolero e cià-cià».

Talento senza freni e limiti. Carosone demolisce tutti gli schemi e le certezze musicali dell’Italia degli anni Cinquanta, democristiana e baciapile. Al Festival di Sanremo il pubblico si strugge per Gino Latilla e Giorgio Consolini che cantano di un Vecchio scarpone ritrovato in un «ripostiglio polveroso», del tempo passato e dei ricordi. Roba vecchia, di una tristezza infinita. Carosone, invece, decide di portare in scena ragazzi napoletani che vogliono «fare l’americano», barche che affondano con tre fratelli pescatori mentre il coro canta «a me che me ne ‘mborta», di un pazzo che a via Toledo, cuore di Napoli, vuole scavare il petrolio, pretende di affittare un cammello e compra un turbante alla Rinascente. In questa lucida follia, il pianista e cantante Renato, incontra personaggi che ormai fanno parte della mitologia della musica “leggera” italiana.

Il primo è Peter Van Wood. Un tipo strano, un olandese che porta in Italia la chitarra elettrica e canta. All’occorrenza anche in napoletano. Il secondo è Gennaro Di Giacomo, in arte Gegé. Suo nonno è il poeta Salvatore Di Giacomo, suo padre per campare fa il “fine dicitore” nei teatri, le sorelle sono cantanti. E lui, Gegé, è un musicista, batterista, che non ha mai studiato la musica. Carosone lo incontra al suo rientro in Italia nel 1949, è a Napoli e ha un contratto con lo Shaker, un night frequentato dalla buona borghesia. Serve un batterista. Gegé arriva al provino solo con le bacchette, non ha lo strumento, suona ritmando sui bicchieri. Un classico che nei mille concerti che Carosone farà in giro per il mondo verrà ripetuto, insieme alle “macchiette” di Gegé e a quel suo «Canta Napoli» che apriva le esibizioni. Una vita da film anche la sua, con mille avventure e dolori sentimentali. Il più forte è l’abbandono della sua compagna Vera Girotti. Si era innamorata di Tommaso Buscetta, il primo pentito di Cosa Nostra.

Il ritiro

Renato Carosone lascia le scene nel 1959, all’apice del successo, quando non ha ancora quarant’anni. L’annuncio viene dato direttamente in televisione e tutti si interrogano sul perché. C’è chi parla di un voto fatto alla Madonna di Pompei, chi del timore di Carosone di affrontare la sfida imposta dalle nuove mode musicali (“urlatori” alla Modugno e rock and roll). Forse la spiegazione vera è nel titolo di un “rotocalco”: «Voglio fare una vita da cristiano». Basta con night, studi di registrazione, concerti all’estero, basta con la tv, Renato Carosone aveva semplicemente deciso di dedicarsi alla moglie Lita Levidi e a suo figlio Peppino.

Chi scrive ha avuto la fortuna di conoscere Renato Carosone, e di passare con lui un intero pomeriggio a parlare di musica e vita. L’occasione una intervista per il quotidiano L’Unità, che in quel periodo pubblicava anche cd d’autore. L’anno era il 1997, il 31 luglio, una giornata bollente a Roma. Vinta la ritrosia del Maestro per le interviste, parlammo dei suoi successi. «Caravan petrol, nacque dalla mia nostalgia per l’Africa. Chiamai Nicola Salerno, il mio amico paroliere e gli dissi: “Nicò, qua dobbiamo fare una canzone sul petrolio”. Mi disse che ero pazzo. Alla fine Nicola si convinse, cominciammo a comporre parole e musica. Mi bloccai su una frase, quella che fa “M’aggio affittato nu cammello” (ho affittato un cammello), mi sembrava poco convincente. “Nicò, ma come si fa ad affittare un cammello?” Nicola mi guardò e mi rispose secco: “Si fa, si fa, a Napoli si può fare”».

In quel lungo e indimenticabile pomeriggio, parlammo anche dell’abbandono delle scene. «Nel 1958 col mio gruppo debuttammo a New York, in quello stesso anno vennero fuori i Platters (il quintetto di Only you, un successo planetario ndr), rimasi impressionato, subito capii che il fenomeno degli urlatori avrebbe preso piede anche in Italia. No, con i miei Torero, Maruzzella, Scapricciatiello non potevo ingaggiare una guerra all’ultimo sangue con questi nuovi cantanti. Consultai mia moglie e decisi: lascio tutto, esco di scena a quarant’anni e all’apice del successo. Due anni dopo andai in tv, a “Serata d’onore”, un programma condotto da Emma Danieli e dopo aver suonato presi il microfono, ringraziai il pubblico e annunciai il ritiro».

Renato Carosone è morto il 20 maggio del 2001, vent’anni fa. Le scene non le ha mai abbandonate.

 

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