Il futuro della cucina è traballante. L’imminente rilancio della gelatina, una sorta di blob trasparente che ingloba vegetali, pasta, carne e fiori e, come l’ambra, le conserva indefinitamente in una dimensione atemporale di vita congelata, ci spinge «alle soglie di una nuova estetica dell’aspic», profetizza lo storico dell’alimentazione Ken Albala in The Great Gelatin Revival (University of Illinois Press). «Il fatto è che il pendolo del gusto è periodico», constata Albala. E così i periodi che abbracciano le gelatine «sono sempre seguiti da periodi di disgusto, a volte così intenso e viscerale che intere generazioni perdono l’abilità di prepararle».

La nuova ondata

In effetti le avvisaglie della prossima ondata di cibi… ondeggianti non mancano. Sui social esistono gruppi come Show Me Your Aspics o Aspics with threatening auras, che presentano foto di gelatine grottesche, e contano migliaia di iscritti. E il jet set si è già appropriato culturalmente di piatti storicamente “poveri”, perché nati dal recupero di resti animali: a Los Angeles Nünchi, pasticceria specializzata in torte di gelatina, ha lavorato per marchi come Hendrick’s Gin e Bottega Veneta e preparato le torte donate ad Ariana Grande e Kaia Gerber su due set cinematografici.

 A Londra invece il trend è dominato dallo studio di food design Bompas & Parr, che nel 2007 ha iniziato a vendere gelatine artigianali al Borough Market di Londra per poi costruire un impero sul dondolio, ivi inclusa la resurrezione dello storico marchio Benham & Froud, che già nel 1785 produceva stampi barocchi per le gelatine dell’aristocrazia britannica, sulla scia della moda lanciata nelle corti europee da chef come Marie-Antoine Carême.

Da ricetta antispreco a dolce sontuoso

L’idea di tramutare il brodo di carne in gelatina, in realtà, risale a parecchio tempo prima dello chef citato. Nel XIV secolo i cuochi europei scoprirono che, se si cuociono ossa, legamenti e pelle abbastanza a lungo, essi perdono il collagene, la proteina fibrosa che è la componente principale del tessuto connettivo e che, scindendosi in gelatina, conserva ciò che racchiude.
Tuttavia, a dispetto della finalità utilitaria e dell’origine antispreco, la gelatina di carne nel tempo si ingentilì prendendo la forma di ricchi aspic o virò verso il dolce nei dessert dei sontuosi banchetti rinascimentali.

Ken Albala ne indica antichi esempi nella raccolta italiana di ricette Banchetti, compositione di vivande et apparecchio generale del 1557: Cristoforo da Messisbugo, cuoco della corte estense di Ferrara, illustrò ivi come preparare la gelatina di cappone, che doveva essere versata sui pezzi di carne e lasciata rapprendere.

Una delle versioni più fantasiose proviene invece dal cuoco del papa Bartolomeo Scappi, che nel 1570 spiegava come creare un uovo arcobaleno, riempiendo un guscio d’uovo prima con uno strato di gelatina imbiancata dal latte di mandorla, e poi stratificando con colori diversi.

Dopo queste invenzioni di corte, tuttavia, la gelatina scivolò rapidamente lontana dai favori del pubblico finché, all’inizio dell’Ottocento in Inghilterra finì associata a locali noti come “jelly houses”, dove la gelatina veniva servita in coppette e le prostitute esercitavano il loro mestiere.

Il successo dei preparati 

La riscoperta arrivò sotto forma di preparato. Le gelatine “in polvere” nacquero nel 1881, quando Pearle Bixby Wait, un falegname che produceva anche sciroppi per la tosse, ebbe l’idea. Il successo commerciale però arrivò all’inizio del XX secolo, quando il preparato del cosiddetto «dessert più famoso d’America» fu abbinato a un ricettario distribuito gratuitamente e arruolò una serie di star del cinema come testimonial.

Ma, di nuovo, dopo il trionfo negli anni Quaranta e Cinquanta, ecco l’ennesima eclisse collagenica, e una fase in cui il tremolio di una pietanza suscitava orrore. «Dalla fine degli anni Sessanta, con la generazione hippie, la gelatina iniziò il suo precipitoso declino, perché la gente non voleva più colori e aromi artificiali», ricorda Albala.

Proprio per questo, nella predisposizione odierna dei giovani a consumare carne creata in laboratorio, lo studioso intravede un’apertura a piatti di natura “industriale”: la moda della gelatina sta tornando, prevede Albala, anche se oggi essa deriva meno dalle polverine chimiche made in Usa che dal vero recupero di tutti i pezzi di un animale, in osservanza della tendenza nose to tail, che, oggi come nel Quattrocento, impone di non sprecare cibo.

In più, ora la gelatina si declina in versione vegetariana grazie ad addensanti come l’agar agar, diffuso nelle culture orientali, che tramite cibi gelatinosi come mochi, bubble tea e raindrop cake, hanno rinnovato la nostra propensione al consumo di cibo “viscido”, pur nel rispetto di una dieta meat free.

Consistenza innocua

La ripresa della gelatina avrebbe però ulteriori motivi. Per Freddie Mason, autore di The Viscous: Slime, Stickiness, Fondling, Mixtures (Punctum Books), la sua nuova rilevanza culturale si deve al fatto che, dopo lungo tempo, la vediamo come qualcosa di innocuo.
«Un tempo il jelly rappresentava una minaccia», precisa Mason, «perché era sinonimo di meccanizzazione e di cibo da ospedale, ovvero di qualcosa che va bene per i momenti della nostra vita in cui il piacere della masticazione non è possibile».

Oggi invece, depurata della sua aura penitenziale, questa “colla” alimentare torna ad attirarci semplicemente perché è una presentazione nuova per ingredienti consueti, grazie alla sua strana consistenza, a metà tra il curioso e il disgustoso. «Sembra immangiabile, ma è commestibile e può essere terrificante e deliziosa allo stesso tempo», chiosa Albala, che ha messo sotto gelatina polpi e uova alla benedict, ma anche sandwich e cocktail (e nel suo libro fornisce le relative ricette).

L’ambiguità di fondo 

Di qui la domanda: e se fosse in questa ambiguità la chiave della riscossa gelatinosa? In un’intervista al New York Times l’artista olandese Rosa Menkman ha sottolineato come le nostre aspettative escludano che il cibo si muova nel piatto. Eppure i frammenti che vediamo nuotare in un supporto translucido, come fossero ibernati, occupano una dimensione intermedia tra il solido e il liquido, tra la vita e la morte.

«Sono fondamentalmente cibi disobbedienti, che si muovono quando dovrebbero essere immobili, costringendoci a pensare a quante volte le persone mangiano esseri viventi con la macellazione tenuta fuori scena, o addirittura con la loro forza vitale non ancora completamente abbandonata: gamberi vivi storditi in una salamoia di liquore, per esempio», ha dichiarato l’artista.
Al contempo, aspic e galantine «non possono muoversi senza che noi li scuotiamo. La loro indipendenza è un miraggio: possiamo divorarli senza rischio di ritorsioni. E nel momento in cui noi li facciamo sobbalzare mettiamo in atto, nella forma più innocua e quindi consolante, le nostre paure».

Insomma, la gelatina si addice allo zeitgeist perché è una metafora dei nostri tempi: prigionieri di un contesto fluido, dai confini indefiniti, dobbiamo imparare ad accettare l’incertezza, sobbalzando senza mai cadere.

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