Ex Iena, voce di un umorismo a metà tra le ultime file del bus in una gita di seconda media e un populismo stantio da Facebook, Duro è in testa al box office con un film talmente carente che persino l’allarme della deriva culturale passa in secondo piano. Oltre a preoccuparsi per l’ideologia vannacciana e squallida che si nasconde dietro al «non si può più dire niente» convertita in insulti e banalità, qui si piange la morte annunciata della coerenza narrativa
«Esser stronzi è dono di pochi, farlo apposta è roba da idioti» cantavano gli Zen Circus nel 2009. Il brano si chiama Andate tutti affanculo, e dà il titolo all’album di culto per gli appassionati del primo indie italiano, quello anni Zero de La Tempesta Dischi e del Circolo degli Artisti a Roma.
È questa la frase che ha rimbombato nella mia testa durante tutta la visione del film campione di incassi Io sono la fine del mondo, esordio cinematografico del comico che il grande pubblico generalista ha avuto il piacere di conoscere in mutande, quando Amadeus lo ha coinvolto in un’esibizione sanremese preannunciata come disturbante e fuori da ogni grazia di mamma Rai.
Già all’epoca, Angelo Duro, ex Iena ora voce irriverente della comicità che graffia con un umorismo a metà tra le ultime file del bus in una gita di seconda media e un populismo stantio da Facebook rivendicato sotto al grande ombrello del cinismo politicamente scorretto, ci aveva incantati con le sue battute al vetriolo, se così possiamo chiamarle; raffinati esercizi di retorica in cui ci diceva, per esempio, che la vera trasgressione è non avere i tatuaggi, e giù pantaloni e maglietta per mostrare la sua pancia alla pancia del paese.
Un patchwork di trailer
Il salto di qualità, ora che il suo film domina il box office, sta tutto nell’aver prolungato di un’ora e mezza circa la stessa struttura comica che, come in gran parte della commedia italiana popolare recente, ha rinunciato a qualsiasi principio di struttura narrativa in favore di un’accozzaglia di gag slegate tra di loro, ossia un patchwork di trailer che dovrebbero avere il compito di comporre un lungometraggio.
Perché la seconda cosa che mi è venuta in mente, subito dopo la puntuale citazione degli Zen Circus, è una domanda: che fine ha fatto Alberto Sordi?
Quello che ci meritavamo e che, evidentemente, abbiamo smesso persino di meritarci nei grandi mischioni tra rossi e neri di morettiana memoria, quello delle commedie che avevano un senso, oltre che una trama sensata.
Possiamo stare intere giornate, come hanno fatto firme di Repubblica e di altri quotidiani autorevoli, a discutere del fatto che Angelo Duro e il suo carrozzone di infantilismo capriccioso spacciato per ribellione che sconvolge i moralisti – con chi ce l’ha esattamente, con la maestra Pina che gli ha messo cinque in condotta nell’89? – sia l’espressione tangibile di quell’egemonia culturale di destra da Società dei magnaccioni, che ci frega che ci importa, se voglio dire a una persona sovrappeso che è un «ciccione», perché il mio senso dell’umorismo si è fermato al Pierino di Alvaro Vitali, lo faccio e lo rivendico come atto di originalissima insurrezione.
Un rigurgito individualista
Possiamo trascorrere settimane, mesi e persino anni a cercare di comprendere perché Angelo Duro sta ai primi posti del botteghino mentre, forse potrebbe essere un indizio, Giuseppe Cruciani conduce una trasmissione radiofonica in cui l’attività principale è insultare il prossimo con argomentazioni triviali e libertarismo da far west in nome del fantomatico freespeech all’americana. Possiamo illuderci che dietro un film come Io sono la fine del mondo ci sia un pensiero politico, quando l’unica articolazione logica – sempre se ce ne sia davvero una – della pellicola di Duro e Nunziante (già regista di Checco Zalone e Pio e Amdedeo, oltre che di Fabio Rovazzi) è il rastrellamento del rigurgito contemporaneo anti-politico, privo di qualsiasi struttura teorica se non quella dell’individualismo opportunista, diffidente e arrogante in cui pesca il nostro governo attuale.
Possiamo concentrarci su questi aspetti centrali per capire come mai così persone non solo vanno al cinema a vedere Io sono la fine del mondo, ma lo apprezzano pure, ma c’è un altro aspetto fondamentale su cui mi focalizzerei, prima ancora di qualsiasi analisi socio-economica del fenomeno. Il film di Angelo Duro ha una scrittura e una messa in scena talmente carente che persino l’allarme della deriva culturale impietosa che trasuda passa in secondo piano.
I personaggi
Prima di tutto – e da questo momento in poi ci saranno spoiler –, la recitazione degli attori sembra essere stata calibrata su almeno cinque film diversi. Giorgio Colangeli, che interpreta il padre di Duro, alterna l’accento romano a un vago ricordo di siciliano con un piglio da Cesaroni, mentre Matilde Piana, che è la madre apprensiva e disperata, sembra uscita da una rappresentazione teatrale di Nino Martoglio.
Angelo, che veste i panni di sé stesso, o perlomeno del comico che abbiamo conosciuto negli anni tra televisione e video virali sui social, luogo dove si consuma il suo grande successo, alterna un’espressione facciale alla Mercoledì Addams e due toni di voce, in linea con quel senso di sociopatia e distacco da redpillato che lo allontana dal mondo dei comuni mortali. Dà della «puttana» a qualsiasi donna si trovi davanti, persino una neonata, gira in macchina per Roma raccattando ubriachi per riportarli a casa ascoltando musica classica, in una rivisitazione Italia 1 di un più generico Patrick Bateman, reietto con un’intelligenza sopra la media, a sua detta, che vive nel disgusto per la corruzione del mondo che lo circonda – niente tatuaggi e niente alcol, Duro ce lo aveva già fatto presente a Sanremo ma è meglio ribadire.
Il punto di svolta del film arriva quando la sorella, personaggio che recita con l’enfasi che avrebbe Teresa Mannino fatta di crack, chiede a Duro il favore di stare con i genitori durante la sua vacanza in barca, nonostante il fratello non faccia ritorno a casa da anni per un non ben specificato odio nei confronti della famiglia. Angelo, ovviamente, accetta non perché abbia il desiderio di adempiere ai suoi doveri di figlio, ma perché intravede in questo suo ritorno l’occasione perfetta per vendicarsi sadicamente di tutte le malefatte dei genitori.
L’implausibilità della trama
Un buon sceneggiatore, a questo punto, si sarebbe impegnato per fare sì che in un’ora e mezza di film potessimo apprendere gradualmente dei traumi passati che hanno reso cattivo il cattivone che Duro è e che giustifichino tanto desiderio di vendetta. Al contrario, ogni tentativo di ricostruzione del passato si traduce in spiegazioni del tutto implausibili, per non dire ridicole: Duro è arrabbiato con sua madre perché non gli faceva bere la Coca Cola, col padre perché non gli ha comprato il motorino, con entrambi perché non gli hanno preso un cane e perché lo hanno messo per sei mesi in collegio. Tutti questi elementi, secondo la trama fantasiosa di Io sono la fine del mondo, portano all’inevitabile conclusione che sì, Angelo è l’anti-eroe che noi piccole canaglie con un passato tristemente irrisolto ci meritiamo.
E così, il protagonista obbliga la madre con l’artrosi a salire interi piani di scale, il padre a mangiare biscotti per cani, la dottoressa giovane e bella che lo invita a guardare la competizione di suo figlio in piscina a sorbirsi il roasting, se così vogliamo chiamarlo dato che Duro ci è stand up comedian, contro il figlio sovrappeso, senza però mai battere ciglio nei confronti dell’atteggiamento sociopatico del quarantenne con i capelli tinti e la divisa da giustiziere della notte. Nel frattempo, una domanda attanaglia lo spettatore, o perlomeno attanaglia me, che mi guardo attorno tra anziani e adolescenti con secchielli pieni di pop corn e molti commenti ad alta voce da esternare: dove sarà il colpo di scena, la rottura della tensione?
A che punto del film un adulto vero va da Angelo Duro a dargli uno scappellotto per dirgli non sei un ribelle sei solo un ingrato individualista convinto di essere l’unico al mondo a non aver avuto il motorino comprato da mamma e papà e a sentirsi fare domande come «che lavoro fai» e «ce l’hai la fidanzata»? Chi glielo dice che non è un rivoluzionario che sovverte le dure leggi della società ma un bambino cresciuto che non ha ancora imparato né la civiltà, ma questa è secondaria, né la differenza tra diritto e dovere, né che il mondo non gira attorno ai soggetti che si percepiscono come il centro dell’universo?
La risposta a queste domande è nell’ultima scena di Io sono la fine del mondo che, come nelle migliori tradizioni di film per bambini ribelli in stile Ci hai rotto papà, si conclude con un gesto forte, ossia un dito medio. Un dito medio lanciato in faccia a noi spettatori e ai genitori protagonisti di questo supplizio pseudo-freudiano che si conclude con Duro che porta madre e padre a fare l’eutanasia in Svizzera. Un dito medio che, personalmente, credo dovrebbe essere rivolto al cinema e alla nobile e a quanto pare sempre più rara arte di raccontare una storia che abbia un senso, una trama credibile e una struttura non dico complessa, ma quanto meno solida, per accompagnare anche la più irriverente e infantile Bildung del Pierino vestito da Nightcrawler dei giorni nostri.
Dunque, oltre a preoccuparmi dell’ideologia vannacciana e squallida che si cela dietro alla lamentela del «non si può più dire niente» convertita in insulti e banalità ostentate come cavalli di battaglia sul piano del dibattito culturale del presente, io starei attenta anche alla morte annunciata della coerenza narrativa, del tutto sacrificata in favore di un assemblaggio caotico di idee e immagini cucite attorno a un fenomeno virale che, in tutti questi anni di attività, altro non ha voluto dimostrare quanto sia idiota fare gli stronzi apposta, e non perché abbia un dono. L’unica regola che sovverte Duro, almeno in termini cinematografici, è quella della verosimiglianza.
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