Nelle ultime settimane, complice il periodo di vacanza, il mondo sembra essersi riempito più del solito di critiche e critici cinematografici improvvisati (e non richiesti). Sarà l’arrivo imminente della stagione dei premi. Sarà il più o meno celato tifo nazionalista per un film italiano, È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, che è già tra i cinque finalisti per i Golden Globe designati dalla Hollywood Foreign Press e veleggia fiducioso verso la cinquina degli Oscar. Sarà l’attenta programmazione delle piattaforme streaming, che hanno caricato online proprio in questi giorni dei titoli molto attesi. Sarà tutto questo o forse no, fatto sta che da qualche settimana fiumi telematici di parole, come non se ne vedevano da tempo, sono stati spesi per incensare o affossare film.

È ormai qualche anno che la morte del cinema come sala è data per certa e imminente. La questione è certamente discutibile, difatti se ne discute continuamente. Qualsiasi conversazione che tocchi anche solo marginalmente dei film sembra destinata a scivolare nel vortice nero dell’affaire streaming. Tuttavia, a furia di canalizzare l’attenzione su un solo argomento si stanno perdendo di vista tutti gli altri.

L’ondata di tweet e post riguardo ai film del momento confermano che se la sala è il grande malato della nostra epoca, è altrettanto vero che il dibattito gode invece di ottima salute.

Uno spettro sembra infatti aggirarsi per internet, lo spettro del cineforum. Il meccanismo di commento e condivisione alla base dei social network si sposa alla perfezione con la dinamica tipica del dibattito post film, quel dibattito che tutti abbiamo imparato a ridicolizzare grazie all’esempio di Fantozzi e della Corazzata Potëmkin.

Oggi invece pubblicare un commento con la nostra opinione su un qualsiasi fatto è parte integrante della nostra vita quotidiana e il dibattito stesso ha trovato nuova linfa, necessariamente svuotato però di argomentazioni e analisi approfondite.

Letterboxd

Per social e affini il cinema rappresenta quindi un’opportunità dal potenziale notevole. Al punto che una decina di anni fa, negli Stati Uniti, qualcuno ha fiutato l’affare e ha messo su uno spazio online per amanti del cinema di tutto il mondo. Quel sito oggi è anche una app e si chiama Letterboxd (il nome fa riferimento alle bande nere che si generano quando le dimensioni delle immagini non corrispondono a quelle dello schermo), ossia il più popolare social network cinematografico. La dinamica si avvicina molto a quella di tutti gli altri social, ma ha anche degli elementi molto originali, come la possibilità di creare liste di film o ricevere (pagando) delle statistiche annuali riguardo alla nostra attività di spettatori. Soprattutto, permette di pubblicare la nostre valutazioni in stelle oppure attraverso una recensione scritta di ogni film.

Parlare di Letterboxd è importante perché buona parte della cinefilia contemporanea, specie per quel che riguarda le nuove generazioni, passa per questo sito, che ha ormai superato i tre milioni di iscritti. In altri termini, il social si è sostituito alla critica esattamente come lo streaming si sta sostituendo alla sala. Il guaio, però, è che la critica non sembra essersene accorta, anzi continua a pontificare dalla sua torre d’avorio, apparentemente ignara del fatto che la platea disposta a leggere recensioni “d’autore” stia rapidamente diminuendo.

Il dibattito attorno ai film ha cambiato binari e ha cambiato modalità.

Non siamo più disposti ad ascoltare poche voci che annunciano la propria edotta opinione dall’alto della loro autorità intellettuale. Il pubblico ha ora sé stesso come unica bussola e quando si mette alla ricerca di opinioni lo fa cercando conferme. Letterboxd si basa esattamente su questo, ciascun utente mette in mostra le proprie valutazioni, invitando quindi a edificare l’interazione a partire dalla compatibilità dei gusti. È il fenomeno della bolla, che chiunque frequenti più o meno assiduamente i social ben conosce.

Polarizzazione

Se si tratta però di discutere di cinema o comunque in ambito culturale, rinchiudersi in una bolla che sia in grado solo di confermare le nostre posizioni può essere deleterio. Confrontarsi unicamente con chi è pronto a darci ragione fortifica la nostra opinione e la radicalizza. Così, infatti, usciti dalla bolla, i dibattiti telematici finiscono per avere una struttura essenzialmente bipolare.

Per statuto, i social si risolvono molto spesso in continue e prolungate risse verbali e verbose. Il conflitto porta necessariamente alla polarizzazione e un film finisce per avere come unici metri di giudizio il capolavoro senza pari o la cagata pazzesca.

Per fare qualche esempio, tra i film di cui si è parlato di più online nelle ultime settimane svetta senza dubbio È stata la mano di Dio di Paolo Sorrentino, sbarcato su Netflix il 15 dicembre (nonostante fosse visibile in sala, non senza polemiche per la scarsa distribuzione, dal 24 novembre).

Don’t look up

Per il regista napoletano, il consenso sfiora l’unanimità; sebbene siano da registrare anche pareri molto negativi, che spaziano dalle accuse di perversione a quelle di aperta misoginia. Il punto però è proprio che il dibattito si è spaccato in due fronti, pronti ad accusarsi veementemente a vicenda: da una parte chi sostiene che il film sia una schifezza inutile e intellettualoide, dall’altra chi è convinto di aver visto un capolavoro ineguagliabile e taccia chiunque non la pensi così di ignoranza o aridità.

Questa dinamica manichea è apparsa ancor più evidente riguardo al satirico Don’t Look Up di Adam McKay, regista statunitense cresciuto in seno al Saturday Night Live. Anche in questo caso il pubblico si è diviso: c’è chi ne ha adorato il tono ironico e il messaggio morale e chi invece lo ha trovato forzato e monotono, ridicolo nel tentativo di essere divertente. Lo stesso regista è intervenuto su Twitter dicendosi contento delle reazioni forti che si stavano generando, ma tenendo a specificare che se non si è preoccupati per il cambiamento climatico Don’t Look Up ha poco senso: «tipo un robot che guarda una storia d’amore. “Perché le loro facce sono così vicine?”».

Una zona inesplorata

Analizzare la situazione attuale del dibattito attorno ai film è utile per sottolineare che esiste ancora una zona inesplorata per chi si occupa di critica. L’anarchico cineforum che si scatena nei vari contenitori internet di opinioni può essere avvilente nei toni e nei contenuti, ma evidenzia che di cinema c’è ancora voglia, sia di vederlo che di parlarne.

Se non si vuole rassegnare all’estinzione e lasciare al coro rissoso dei social il monopolio del dibattito, chi ha ancora intenzione di parlare di cinema in maniera seria e approfondita deve venire incontro all’evoluzione che il pubblico ha subito. La vera sfida è trovare il grimaldello per inserirsi nel dibattito e invertire la tendenza, canalizzare la smodata attenzione che traspira online per farne il combustibile di un approccio meno superficiale al mestiere di spettatore. Non è certo un obiettivo semplice, ma forse è l’unico su cui abbia senso lavorare. Prendere coscienza dello stato attuale delle cose sarebbe già un passo importante.

L’unica alternativa, d’altronde, è l’esasperazione. Continuando così, è probabile che noi cinefili per primi ci ritroveremo, come in quella scena di Io sono un autarchico di Nanni Moretti, ad affondare la nostra faccia tra le mani e a scappare via gridando: «No, il dibattito no!».

 

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