Alexa, Cortana, Siri: come fanno a essere così attente alle nostre esigenze e cosa le accomuna? Che sono tre assistenti digitali, che sono femminilizzate, che sono sempre a nostra disposizione. Concepite e sviluppate da team a prevalenza maschile, è la solita vecchia storia: se è donna (non importa che sia artificiale), è lì per prendersi cura di noi.

La psicanalista Laura Pigozzi ha coniato il termine “plusmaterno” per parlare di quell’eccesso di cura che una madre, a volte, infligge al figlio e con cui lo infantilizza, secondo un’attitudine perfettamente simmetrica a quella dell’economia capitalistica che inonda la nostra vita di merci, per non renderlo mai del tutto indipendente da sé. Come in una forma ipertecnologica di plusmaterno, allora, il latte che ci offrono queste intelligenze artificiali femminili ci è necessario. Senza non siamo nessuno.

La donna artificiale

Nel mito narrato da Ovidio, Galatea è la statua scolpita da Pigmalione che, improvvisamente, grazie all’intercessione divina di Afrodite, prende vita: per fortuna, perché altrimenti Pigmalione sarebbe rimasto vittima di quei “vizi illimitati che natura ha dato alla donna” (così si dice in quel grandioso libro che è Le Metamorfosi), e non avrebbe mai trovato una sposa degna della sua grandezza.

Di storie come questa ne conosciamo molte: il nostro immaginario occidentale è un immenso deposito di fantasie maschili riguardo alla creazione di una donna perfetta. Qualcosa del genere capita nel racconto del 1815 di E.T.A. Hoffmann, Der Sandmann (tradotto in italiano come Mago sabbiolino, o L’uomo della sabbia). 

Ma ancora più evidente è il caso di Hadaly, la donna artificiale più vera (e perfetta) delle donne vere (e imperfette), che Villiers de l’Isle-Adam dipinge come la “Eva del futuro” (Eve future è il titolo del suo romanzo del 1886, ripubblicato da poco in italiano, per Marsilio, nella traduzione di Chetro De Carolis).

Frutto dell’inventiva, tra scientifico e fantascientico, del geniale Thomas Alva Edison, Hadaly ha tre sommi pregi che valgono più che la sua buona educazione, il suo senno, la sua bellezza: primo, si accende e si spegne; secondo, adora “sinceramente” Lord Ewald, come “sinceramente” un’applicazione fornisce il servizio che le chiediamo di fornirci, e, terzo, è priva di sesso, vale a dire di quell’elemento così meschino che Lord Ewald sostiene di disprezzare. Simulacro di una serie di rimossi, Hadaly, così come il suo innamorato, non fa una bella fine: non poteva che andare così.

Bambole ribelli

Tre anni dopo il romanzo di Villiers, esce quello di Jules Verne, Il castello dei Carpazi (1889), dove si nota bene un aspetto fondamentale di tutte queste narrazioni: la donna finta è una sostituta di qualcosa (di vero) che l’uomo (nello specifico) vorrebbe ancora ma non possiede più – o che vorrebbe possedere e non ha mai posseduto.

Per esempio un amore che se n’è andato, ma non solo. La donna modellata paternalisticamente da un uomo è anche specchio (e spettro perturbante) delle sue mancanze. Del 1913 è la commedia Pygmalion di George Bernard Shaw che, riscrivendo il mito di Pigmalione e Galatea, negli anni Cinquanta e Sessanta ispira prima il musical del 1956 di Alan Jay Lerner e Frederick Loewe, e poi il celebre film con Audrey Hepburn diretto da George Cukor, My Fair Lady (1964).

Qui la protagonista è Eliza Doolittle, una donna vera ma meno vera delle altre perché povera: tocca al magnanimo professor Henry Higgins, esperto glottologo, educarla alla buona pronuncia e alla buona società. Scommette con il colonnello Pickering, naturalmente anche lui uomo ricco e acculturato, nella riuscita dei suoi intenti, e per un po’ l’illusione sembra condurre a una storia d’amore a supposto lieto fine (come nel musical).

A un certo punto, però, Eliza smette di essere la sua bambola, scegliendo di sposare Freddy Eynsford-Hill, un gentiluomo povero, e il professore rimane da solo, portando ancora sulle spalle tutto quell’insieme di costumi, suoni e gesti rituali da cui nemmeno l’incontro con il Grande Altro, la povera fioraia cockney, è riuscito a liberarlo.

Maria

Un altro grande esempio è Maria, la protagonista femminile di Metropolis (1925, nella versione romanzesca di Thea von Harbou; 1927, per quella cinematografica pensata dalla scrittrice e diretta da Fritz Lang, suo marito), che diventa metafora delle possibilità, ontologiche e insieme politiche, di un’alternativa a una società capitalistica e maschile.

Di Maria, in realtà, ce ne sono due: nel film sono entrambe recitate da una suprema Brigitte Helm, ma una è la Maria “vera”, di cui Freder, il figlio del padrone della grande fabbrica, Fredersen, si innamora; l’altra, invece, risulta finta al quadrato.

Prima di tutto perché artificiale, frutto della creazione ingegneristica e magica del professor Rotwang. Secondariamente perché costruita a partire dalla struttura di un precedente automa che Rotwang, come si capisce nelle scene adesso recuperate del film, aveva creato in ricordo dell’amata Hel, madre di Freder.

Dunque, tra la vera Maria, la sua versione finta e posticcia e il giovane figlio del capitalista si potrebbe consumare una specie di triangolo incestuoso, ma in realtà nel loro incontro si gioca molto di più: una rivoluzione degli operai, che smantellerà completamente il sistema di sfruttamento e meccanizzazione della fabbrica del padre padrone. Anche qui ci sono diverse esplosioni, ma la vera Maria e l’uomo del futuro (“The Mediator between head and hands must be the heart!, Il Mediatore tra la testa e le mani deve essere il cuore!”) sopravvivono, più o meno, alla catastrofe.

Un maschile diverso

Un discorso a parte bisognerebbe fare per l’Italia. Se prendiamo la nostra storia letteraria del Novecento, anche qui sono molte le donne – finte – che incarnano il desiderio – maschile – di essere accuditi. Sorprende, però, che più spesso che in altri immaginari nazionali l’automa femminile sia metafora di un senso di inadeguatezza del maschile, di una sua specifica crisi o, talvolta, persino di un suo desiderio inconscio di farsi da parte. Di essere sostituito.

Di questo aspetto parlano molti film di Federico Fellini. Si potrebbe parlare di Futurismo (di macchine e di donne-macchine sono davvero ricche tutte le opere, letterarie e non solo, che possono essere definite “futuriste”), del primo romanzo fantascientifico italiano, Il grande ritratto, scritto da Buzzati nel 1960, in pieno clima cibernetico, o dei racconti fantabiologici di Primo Levi; o di un racconto straordinario di Landolfi intitolato La moglie di Gogol (1954); ma i film di Fellini rappresentano il massimo esempio di questo discorso.

Nella pellicola Il Casanova (1976), per esempio, il celebre seduttore veneziano trova sempre meno soddisfazione nei rituali di accoppiamento meccanici, per così dire paratattici, cui sottopone il proprio corpo. La crisi della propria mascolinità eccezionale che Casanova è costretto a constatare, suo malgrado, diventa veicolo della necessità di una messa in discussione del significato tradizionale di “maschile”.

Non solo, perché questa crisi diventa per Fellini metafora straniata di una situazione doppia di infertilità: vale a dire, del desiderio di non diventare adulti, come dichiara lui stesso in relazione al personaggio di Casanova, e, insieme, della crisi dell’artista nell’Italia della società di massa.

La soluzione? Accoppiarsi con una bambola meccanica, l’unica che con le sue braccia rigide e i meccanismi prevedibili, e quindi dolci, e sempre attenti ai suoi bisogni (come una madre), possa rendere di nuovo felice Casanova. Negli anni delle sempre più feroci e consapevoli lotte per l’emancipazione femminile, in cui le donne non solo sono più umane che mai, ma stanno diventando un soggetto imprevisto, spaventoso, Fellini ricorre a una donna artificiale per ristabilire un ordine ormai perturbato.

E oggi? Abbiamo davvero ancora bisogno che un’interfaccia tecnologica dalla voce vagamente dolce e materna ci culli in eterno? Perché, nell’epoca dei femminismi alla portata di tutti, siamo ancora così immersi (molto più, a quanto pare, che negli anni Ottanta) in quel plusmaterno di cui parla Pigozzi? Nelle intelligenze artificiali femminilizzate ritroviamo un’altra forma di quella tetta capitalistica che ci opprime, e non ci fa mai diventare adulti.

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