S. J. Perelman – umorista americano colpevolmente ancora inedito in Italia – seminava i suoi scritti di riferimenti fintamente occulti alla realtà e alla società dei suoi tempi, gli anni Quaranta del Novecento, di rimandi ad altri suoi pezzi, di ammiccamenti a situazioni e relazioni esistenti fuori dalla sua pagina.

Magari nel titolo del giornale per il quale scriveva o in qualche foto contenuta in un altro articolo, di matrice assai più seria. In un famoso brano, pubblicato sulle pagine del New Yorker, montava un’intera spassosissima vicenda su una foto segnaletica sbagliata (o forse da lui stesso seminata ad arte) messa per errore a corredo di qualche pagina prima della sua. È il modo, per nulla scontato e più unico che raro, che certi scrittori hanno di assorbire l’intorno e di piegarlo all’obbiettivo comico senza paura di offendere, di scandalizzare o di sbagliare il colpo.

Meccanica di precisione

Non so se Valerio Lundini conosca o meno il lavoro di Perelman, suppongo di sì, ma sicuramente è benedetto dalla sua stessa capacità di intuizione e velocità di esecuzione. Tutto, per Lundini, è materiale da riutilizzare e plasmare per il proprio scopo. Su un palco o di fronte alla macchina da presa, la performance lundiniana è un compendio appassionato e preciso al secondo di ogni oggetto, persona, brano musicale o supporto visivo porti con sé, o capiti per caso, in scena.

Osservarlo all’opera è come assistere al lavoro di un esperto orologiaio che ricompone gli ingranaggi sparsi di un marchingegno in pezzi. È l’equivalente comico della meccanica di precisione: incomprensibile finché non se ne coglie l’insieme e non si assiste allo scopo per il quale la macchina è stata assemblata.

Come i Simpson

Come scrittore, non è diverso. Un racconto comincia, sembra andare in una direzione, poi devia e ci illudiamo di aver colto il meccanismo, ma improvvisamente torna sui binari, prende uno scambio e parte per tutt’altra deriva, lasciandoci spiazzati.

L’autore televisivo Mike Reiss, che da oltre trent’anni lavora nella writing room della più longeva sitcom animata della storia, I Simpson, spiegava l’architettura di un episodio come: «Un incipit che rassicuri lo spettatore, lo faccia sentire a suo agio e certo di avere già ben chiaro dove la storia andrà a parare, ma che nel corso del racconto, si trasformi sottilmente in tutt’altro, per giungere a un finale distante anni luce dalla premessa». Ecco Lundini, con la sua matematica apparentemente lineare, che in realtà si rivela una sublime complicazione di un percorso diretto.

Nella sua ultima raccolta, Foto mosse di famiglie immobili (Rizzoli Lizard), è incarnata l’essenza dell’umorista di precisione: ogni singolo racconto, saggio, o componimento, è in dialogo costante con il resto del libro, dalla copertina alla quarta, e in perenne interscambio col mondo che circonda il lettore. Che ci si trovi per strada, in un luogo pubblico, oppure nel privato delle nostre stanzette, leggendo Lundini si ha la perenne sensazione che l’autore ci osservi da dietro le spalle, pronto da un momento all’altro a trascinarci all’interno della narrazione. Mica facile.

Più di un comico 

Proprio come Perelman – col quale Valerio condivide anche un certo gusto per il vestire –, Leo Rosten, Nora Ephron, David Sedaris, Steve Martin e tutti gli scrittori della loro stirpe, definire Lundini un “comico” è dolorosamente riduttivo. La letteratura umoristica incrocia la comicità, e la pratica della comicità indubbiamente si avvale della scrittura, ma nessuna di queste discipline è interscambiabile; come queste definizioni non sempre sono condivisibili.

Ci sono comici che non hanno idea di come si costruisca un racconto umoristico, e scrittori che su un palco farebbero scena muta. In Italia, però, finiamo con entrambe le gambe impantanati nell’equivoco e, come spesso capita, facciamo di tutta l’erba un fascio. Non è colpa nostra di lettori, e nemmeno degli editori; è che non abbiamo l’orecchio per certe distinzioni.

Risate e cinismo

Come mi ha detto una volta Rocco Tanica: «I racconti di Lundini non sono comici, ma profondamente malinconici, quasi drammatici». Fanno ridere, a volte anche esplodere dalle risate, ma sono così intersecati alla realtà e calati nell’immaginario di un mondo disincantato e cinico, che non ci si può esimere da una seconda lettura; e quando questa emerge, ci si rende conto che non ci si è mai trovati di fronte a un libro di battute di quelli che avrebbe potuto pubblicare – pace all’anima sua – la Kowalski negli anni Novanta. Però, come nel vecchio adagio che vuole i librai spiazzati di fronte alla saggistica letteraria al punto di non sapere dove metterla sugli scaffali, quando esce un libro umoristico pare che la prima cosa da chiedersi sia quale possa essere il ruolo dell’autore in televisione o al cinema. Perché da queste parti non si riesce a essere umoristi senza essere comici.

E se poi si comincia a leggere Lundini, o Tanica, o ancora quel ruggito sommesso e gutturale che sono gli scritti di Alessandro Gori, le confessioni spassionate di Saverio Raimondo, le peripezie britanniche di Francesco De Carlo, rimane sempre una sacca di delusi che fatica a rintracciare le battute familiari e storce un poco il naso. Eppure, di umorismo del genere ce ne sarebbe tanto bisogno, come ci sarebbe bisogno di un pubblico vasto che ne sappia riconoscere il valore, al di là del tormentone al quale ci siamo abituati.

Immersi nella realtà

Per citare il regista di origine tedesca Ernst Lubitsch: «Si può piangere dal ridere, ma è difficile ridere senza sapere come piangere». Se dietro la battuta calcolata, i tre minuti esplosivi in scena per deliziare il pubblico da casa, limati e puliti al punto da non lasciar più trapelare nulla della premessa reale che li ha generati, non è più possibile scorgere niente di solido nel quale immedesimarsi e ci si limita a reagire d’istinto al motto di spirito, certa letteratura umoristica è impossibile da scindere dalla realtà.

Quando Lundini dipinge le vicende di uno sprovveduto fuori sede che si immerge nella perversione del Berghain di Berlino, di un calabrese che scrive a casa da Londra per, in sostanza, prendersi gioco dei genitori rimasti a Soverato, di un’aspirante giornalista che si può trovare o meno di fronte al bosone di Higgs a Bologna, dipinge, venandola di comico, una realtà talmente concreta da svelare il dramma che la sostiene come vecchie fondamenta. L’assurdo apparentemente caotico di Foto mosse di famiglie immobili si regge su decine di esistenze che Lundini conosce ed esplora, assorbe e fa sue per restituirle alla pagina.

È così che si fa letteratura umoristica: sottraendo il comico all’avanspettacolo e immergendolo nuovamente nella realtà nella quale si genera prima di essere sofisticato dal mezzo. Senza dimenticare il fine ultimo, quello di divertire, ma senza nemmeno sacrificare la fonte primaria, quella drammatica esistenza nella quale chiunque può ritrovarsi, che accende la scintilla e fa correre una miccia che attraversa le menti fertili degli umoristi appiccando, in alcuni casi, un incendio.


Foto mosse di famiglie immobili (Rizzoli Lizard 2022, pp. 176, euro 16) è una raccolta di racconti di Valerio Lundini

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