Credo di essere stato uno dei primi, o forse addirittura il primo, a suggerire che l’università italiana e la ricerca da essa prodotta dovessero esser sottoposte a valutazione. Molto denaro andava disperso in ricerca irrilevante o semplicemente dissipato.

Eravamo nel 1993, e nel mio L’università dei tre tradimenti (in cui, trent’anni dopo, avrei ben poco da cambiare), uno dei tradimenti che additavo era proprio la ricerca in abbandono: finanziata poco e male, priva di controlli di qualità, con una forte di propensione allo spreco. Parlavo infatti di “povertà affluente”. Malgrado questi precedenti, non vorrei però essere neppur lontanamente considerato responsabile di quel che, in fatto di valutazione, accadde qualche anno dopo.

Il matematico Luciano Modica, raccogliendo l’idea, elaborò nel 2006 le linee di un’agenzia nazionale di valutazione della ricerca. L’impulso era buono e sano: sottoporre finalmente le università e la ricerca a una periodica valutazione, sia per incitare a migliori pratiche sia per premiare i settori di migliore qualità.

Un obiettivo minore ma non irrilevante era quello di stanare i professori inattivi, che erano e sono numerosi. Il modello era conforme a quel che accadeva in paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, dotati di sistemi accademici avanzati, in cui da decenni si usavano pratiche di valutazione.

Modica non riuscì però, per le instabili sorti della politica italiana, a realizzare quell’idea. Nel frattempo, veniva creato presso ogni università un costoso (e inutile) Nucleo di Valutazione interno.

L’idea dell’agenzia nazionale passò prima nelle mani di Fabio Mussi, poi in quelle di Maria Stella Gelmini (Governo Berlusconi IV), che nel 2009 dette alla luce l’Agenzia Nazionale per la Valutazione delle Università e della Ricerca, subito nota con la sigla Anvur. Sembrava la soluzione di un problema annoso; si rivelò invece una fonte di grane che si trascinano ancora.

Perché gli universitari odiano l’Anvur

Se si chiede oggi agli universitari italiani, di qualunque specialità e livello, che cosa li indispone di più, quasi di sicuro diranno che è proprio l’Anvur. Spento l’impulso iniziale, l’Anvur venne fuori infatti come un brutto anatroccolo, che suscitò sin dagli inizi sospetti, risentimenti e proteste che si appuntarono su più aspetti.

Per cominciare, sugli organi direttivi. In cima alla piramide Anvur stanno sette consiglieri con carica quadriennale, scelti dal ministro dell’università in una lista suggerita da centri e accademie italiane e straniere (per abbondanza, sentito perfino il parere del Consiglio nazionale degli studenti). Ebbene, nessuna delle tre tornate di designazioni avvennute finora è passata senza gaffes, incidenti e dissensi.

Si entra in lista presentando la propria candidatura in base a un periodico bando. Ognuno dei candidati è tenuto a presentare una memoria sui motivi per cui si presenta. Il sito Roars, che segue con instancabile puntiglio la vita della ricerca italiana e in particolare della valutazione, spulciando spietatamente queste memorie, scoprì che molte erano redatte in un italiano traballante, con argomenti risibili e soprattutto con riferimenti non aggiornati al tema della valutazione.

Non mancò chi si era abbandonato a confessioni toccanti, come le seguenti: «Molto ho con lei [la sua compagna] discusso sul fatto che il mio eventuale periodo di lavoro in Anvur li [i loro figli] priverebbe della mia presenza durante la settimana. Più ne discutevamo, più emergevano aspetti positivi: il vivere appieno e intensamente i weekend di ricongiungimento famigliare, le frequenti loro gite in una splendida Roma, la rapidità del Freccia Rossa per le emergenze, ecc.»

Nel 2015, inoltre, fu scelto come presidente un candidato nella cui memoria l’implacabile Roars aveva pescato vari passi presi di peso da ben quattro testi altrui, ma non indicati da alcun segnale di citazione. Il candidato non fece una piega, e si installò.

Questione di stipendi e gaffe

I primi passi dell’agenzia non furono quindi i migliori per costruire un profilo credibile e autorevole. Ma controversie sono sorte anche a proposito delle retribuzioni dei membri del direttivo. Il presidente guadagna 210.000 euro lordi all’anno, i componenti 178.500, quindi rispettivamente poco più e poco meno del doppio di un ordinario a fine carriera.

Nei casi di membri fuori ruolo, la pensione si somma allo stipendio. Data l’entità di queste somme, non sorprende che l’Anvur attragga i professori dal cursus gravidi di cariche, che nelle università sono numerosi quanto in politica. Il curriculum del presidente attuale, ad esempio, è uno spettacolare catalogo di cariche e funzioni, in sincronia e in diacronia, sia simboliche che onerose.

Ma non basta. Nella breve storia dell’agenzia non son rare clamorose gaffes, che hanno per un po’ allietato il mesto ambiente universitario: la pedagogista Luisa Ribolzi, componente del primo direttivo, si confessò autrice dell’anonimo e classico Manuale di Nonna Papera; nella lista delle riviste scientifiche ammissibili nel primo turno di valutazioni erano inclusi non solo quotidiani come Il Sole 24 Ore ma anche piccoli organi locali come l’Annuario del Liceo di Rovereto e altri del tutto privi di nesso con la ricerca.

Col tempo l’Agenzia ha raffinato le sue liste, ma non ha cessato di essere un luogo di conflitti: la designazione nel 2020 dell’attuale presidente, il barese Antonio Uricchio, con quattro voti su sette, contestata dinanzi al TAR da una sua concorrente che aveva avuto i restanti tre voti, fu sospesa per alcuni mesi.

I gruppi di valutazione

Tra gaffe e incidenti, comunque, l’Anvur ha continuato la sua avanzata, estendendo le sue competenze fino a diventare quel che è oggi: un gran corpo che muove centinaia di persone e ha una giurisdizione immensa. Il suo modo di funzionare è molto complesso.

Periodicamente lancia appelli a candidarsi ai Gev (Gruppi di Esperti della Valutazione), i quattordici comitati che esprimono valutazioni nei diversi ambiti. (Alcuni componenti sono onorati del raro titolo di “Alto Esperto di Valutazione”.)

Capita che, dato il gran numero di persone necessario per costituire i Gev, praticamente tutto o quasi il personale universitario italiano finisca per farne parte, senza tener conto di livelli accademici, anzianità, qualità dei lavori svolti e così via. In questo modo, tutti valutano tutti, o, per dirla all’inverso, tutti sono valutati da tutti.

I Gev, affiancati da SubGev, si occupano della VQR (Valutazione della Qualità della Ricerca), una campagna periodica obbligatoria alla quale ciascun ricercatore si presenta con massimo di quattro “prodotti” (all’Anvur li chiamano così!), lottando con moduli di diabolica complessità. A questa mastodontica macchina si aggiungono i comitati che decidono che “peso” qualitativo dare alle riviste scientifiche.

Di alcuni gruppi e comitati, fanno parte anche studenti (col titolo di “Esperti studenti”), sebbene si possa dubitare che uno studente possa valutare alcunché in fatto di ricerca.

Oggi, il territorio in cui l’Anvur esercita il suo imperio valutativo è vastissimo. Ne dà un’idea lo sterminato suo sito, la cui arborescenza compete con quello, diabolico, dell’Inps. L’Anvur si occupa infatti della qualità della ricerca, della classificazione degli atenei, della loro amministrazione, dell’accreditamento dei dottorati e dei dipartimenti, dell’individuazione dei cosiddetti “dipartimenti di eccellenza” (che ricevono speciali finanziamenti), del coordinamento dei Nuclei di valutazione di ateneo, della gestione delle ASN (abilitazioni scientifiche nazionali, cioè le valutazioni che abilitano all’accesso a posti di professore).

Si noterà che ogni manifestazione dell’agenzia è indicata da una sigla (VQR, AVA, ASN, AFAM, GEV, SUBGEV, TECO e così continuando).

Non c’è docente italiano che non si dibatta in questa foresta di sigle minacciose (oltre che della soverchiante modulistica), talmente lussureggiante che per aiutare a cavarne i piedi l’Anvur ha dovuto pubblicare una “Lista degli acronimi e termini speciali”!

Incubo mediana

Controversie e polemiche si sono create su diversi altri aspetti. Uno delle più temibili e discusse creazioni dell’Anvur sono le “mediane”. Pesati in base ai loro “prodotti” e alle citazioni ricevute, i ricercatori vengono messi in una classifica distinta in due categorie, secondo che si superi o no un certo indice. La linea di separazione tra i due gruppi è la cosiddetta “mediana”, che in pratica distingue i salvati (sopra la mediana) e i sommersi (sotto).

Chi supera la mediana può accedere a una varietà di funzioni e prerogative: far parte delle commissioni di abilitazione, essere componente di dottorati e dipartimenti o anche candidarsi a membro del direttivo Anvur. Chi non la supera, anche se solo di poco, ricade nella schiera degli intoccabili.

Criticatissima è anche la distinzione che l’Anvur fa tra i “prodotti” della ricerca in due classi: i “bibliometrici” e i non “bibliometrici”. Nei primi, propri delle scienze “dure”, gli indici individuali si ottengono in base alle citazioni che i ricercatori ricevono.

Si tratta di un criterio puramente numerico, che non dice nulla della qualità dei lavori e che per questo è contestato o abbandonato in vari paesi. Ma all’Anvur ciò non importa, anche se con questo metodo ha messo in scena alcune gag.

Nel 2014, al termine dalla prima VQR, l’Università di Messina (diciottesima su 63 atenei) batté il Politecnico di Milano (ventiquattresimo) e quello di Torino (trentesimo). Il povero Politecnico di Milano risultò sconfitto perfino dall’Università telematica UNICUSANO (sesta).

Questi dati suscitarono, oltre che proteste, anche risate. I settori non bibliometrici sono tutti gli altri (in pratica le umanità e le scienze sociali), dove conta invece la qualità delle sedi di pubblicazione (riviste, ecc.).

I costi

Una macchina così mastodontica non può non essere costosa. Ho detto della fastosa retribuzione del consiglio direttivo. Va aggiunto che l’apparato burocratico, ugualmente ben retribuito, riscuote anche notevoli “premi di produzione”. Anche le attività Anvur risultano costose: si è calcolato che la VQR del 2014 è costata tra i centosessanta e i trecento milioni di euro, ma non è noto quali benefici abbia portato.

Qualche anno fa il manifesto dedicò all’Anvur un crudo articolo intitolato la tragedia di un’agenzia ridicola. In più occasione le azioni dell’Anvur ci hanno fatto un po’ ridere, ma, risate a parte, credo anch’io che questa macchina monumentale e vorace abbia urgente bisogno di una revisione radicale, che la renda più autorevole, più economica, più semplice, meno torturante per chi è sottoposto ai suoi meccanismi e che dia davvero un’immagine credibile del valore della ricerca italiana e dei suoi risultati.

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