È evidente che per Vasco Brondi le parole sono importanti; e da quelle partiremo.

Ma prima occorre commentare insieme lo sfondo sul quale è ritagliata la sua figura, che è un po’ il giovane Kive di Shtisel, (serie israeliana bellissima) e un po’ pugile anni Cinquanta: una tappezzeria, che, mi dice Vasco, ha appuntato su due chiodi per coprire un muro scrostato “come quelli delle case affittate dalle Br per farci i loro covi”.

La tappezzeria ha motivi floreali e quasi esotici; ottima scenografia per una conversazione nella quale la natura avrà un ruolo importante. Mi complimento. Poi iniziamo a parlare, proprio a partire dal lungo testo diaristico Note a margine e macerie che accompagna il disco.

Perché hai voluto pubblicare il tuo diario insieme al disco? Sei bulimico di parole, oltre tutte quelle che hai messo nelle canzoni.

Mi ha aiutato a rimettere un po’ in ordine le idee mentre scrivevo le canzoni, obbligandomi a dare un senso logico a quello che illogicamente usciva nelle canzoni. Non ho maturato una gran capacità decisionale rispetto alle canzoni che scrivo, mi rendo conto solo a posteriori di quello che ho fatto. Fermarmi a scrivere mi dava un po’ più di consapevolezza, ero sempre solo a scrivere i pezzi, durante il lockdown. All’inizio pensavo potesse essere un diario di viaggio ma è stato un diario di viaggi senza viaggi, solo spostamenti da Ferrara a Milano sull’A1 deserta. E quindi ci ho messo anche reminiscenze di viaggi precedenti.

Nelle tue “canzoni” le parole sono sempre in primo piano; ciò porta a cercare di capirle e interpretarle come si fa con un testo letterario.

De André, nonostante il lavoro che ha fatto sulla musica, diceva «per me la musica è un tram che porta in giro le parole». In questo disco ho pensato a quale potesse essere il mondo sonoro che rendesse più evidenti le parole. Il mio lavoro solitario è sulla parola, scrivo la canzone, un accenno di armonia… poi il lavoro musicale è collettivo, con musicisti molto più bravi di me. Scelgo le persone e poi do carta bianca. Per far emergere le storie ho tolto gli strumenti con cui avevo scritto i pezzi: pianoforte, chitarra… abbiamo fatto sound design. Resta un mischione di fondo; io stesso non riconoscevo più le tracce: sintetizzatori, orchestra di fiati o cori umani? È una specie di orchestra fantasma che fa vagare la voce nel niente. Ma anche una canzone come Chitarra nera, che sembra solo letta, in realtà ha delle note, che peraltro non riuscirò mai più a riprendere dal vivo, perché non hanno una forma. Mi viene in mente una ninnananna che cantava nostra madre in dialetto del lago di Garda, era una cantilena. Credo che anche tanto cantautorato italiano che sembra parlato cerchi invece l’attenzione anche attraverso la musica come se ti stesse parlando e non solo intrattenendo.

Hai uno stile che certamente lavora per immagini e tentativi poetici ma che diventa narrazione, quasi prosa…

Sì, a volte sono flash di romanzi di formazione, con spunti lirici ma anche piccoli film o fotoromanzi senza foto. Solo andando nei dettagli esci dal genere e trovi un soffio vitale. Tom Waits ha detto che immagina sempre se piove o c’è il sole in quel momento della canzone, che libro c’è sul comodino e cosa c’è in frigo. Questo fa in modo che anche se tagli moltissimo i testi, a volte i miei nascono come racconti, fai in modo che rimangano storie.

26.000 giorni, il primo pezzo. È l’età media mondiale tradotta in giorni, che fa effetto, riconosco il dolce masochismo dell’uomo triste ma di talento.

Ma non sono affatto triste! Io rifletto molto sulla morte, che è un grande rimosso. Ho studiato molto la meditazione, sono andato a Dharamsala dove i monaci tibetani dedicano gran parte della giornata alla meditazione sulla morte. La fanno nei cimiteri; c’è più gente viva che morta nel cimitero di Dharamsala! Vanno a meditare anche negli obitori, assistono alle autopsie per rendersi conto di com’è il corpo umano, che ci attrae ma in realtà dentro fa schifo.

Molto spesso fa schifo anche da fuori eh…

Ahahah, sì, vero. Nella canzone c’è quell’altra frase siamo qui per rivelarci e non per nasconderci… è stato il mio mantra. Mi piace mettere in una canzone cose che poi amo ripetermi. Anche perché quella canzone devo cantarla centinaia di volte! Ripetermi che abbiamo solo 26.000 giorni è una cosa buona. Mi serve capire come siamo, per rivelarci; ogni momento è da vivere pienamente. Non mi deprime per niente, anzi. Mi deprime non tenere conto del fatto che moriamo, che siamo fragilissimi. Le cose essenziali non le sappiamo prevedere. È importante tenerlo a mente. Mi deprime la vita quando è un grigio succedersi di eventi di superficie, di piccoli problemi che non tengono conto della brevità del nostro passaggio.

Ho trovato nel tuo disco un rapporto con il sacro, fermo seppur vago e imprecisato, nel senso più ampio del termine; la natura, il trascendente, tutto ciò che esula da ciò di cui parlavi ora: l’essere funzionali, risolvere problemi, attaccarsi alle cose del mondo.

La parola sacro mi risuona tantissimo come opposta al materialismo. È un tema su cui negli anni ho cambiato idea. In questo momento tutto mi sembra più interessante della religione del materialismo. Noi guardiamo dall’alto in basso chi fa il ramadan, chi rimane celibe a vita, come fossero idioti, mentre passiamo una vita senza senso correndo verso il mito della realizzazione personale, dello status sociale e della ricchezza. È la nostra religione fondamentalista. Ho molta più stima di qualsiasi prete di campagna.

Mi fai venire in mente l’infatuazione di Sartre per il Diario di un curato di campagna.

Io sono cresciuto con Sartre.

Hai il talento dell’esistenzialista divenuto consapevole dopo la battaglia. Le tue canzoni sono fardelli.

Per me è un modo di custodire il fuoco che mi fa continuare a scrivere canzoni: capirne l’utilità. Noi umani ci siamo affezionati alla musica e l’abbiamo usata come strumento. Mi interessa la musica fatta non per piacere ed essere venduta, ma per altri fini. Non importa che ti piaccia una musica fatta per una festa o per un funerale. È un tema che mi interessa dell’arte: capire, ricordando Grotowski, come attraverso l’arte si possa evolvere come persona. Io cerco anche di acchiappare due piccioni con una fava: vedo se c’è modo di evolvere a livello personale facendo musica.

La musica che serve a qualcosa è parte del rito, che a sua volta ha un rapporto con il sacro. Naturalmente il rito e il sacro non hanno necessariamente a che fare con la religione, anche un concerto è un rito. Pezzo successivo, Ci abbracciamo, dedicato alla polka chinata, ballo tradizionale in via di estinzione. È proprio un pezzo peace&love, anche se la frase più peace&love è di Sant’Agostino: “Amate e fate quello che volete”. La polka e Sant’Agostino è un mix miorilassante.

In effetti quando ho cominciato a cantarmi la frase di Sant’Agostino in loop da solo mi son chiesto se avesse senso. Ma anche la polka è un rito. In una società secolarizzata anche il concerto pop è un rito e in questo periodo la loro mancanza ci ha tolto tanto. Mi interessava rimettere al centro gli abbracci – e l’ho scritta prima della pandemia, avevo in mente solo il mondo digitale e la nostra incapacità di stare davvero vicini, poi è arrivata la pandemia e ha preso un senso ancora più forte. Gli abbracci sono ormai illegali, e quindi ancora più preziosi.

Con Città aperta, terzo pezzo, è ormai chiaro che sei un menestrello. Racconti la tua storia, parli e non canti. Non temi che questo possa essere percepito come monotòno e quindi anche un po’ monòtono?

Interessante. Professionalmente potrebbe essere un limite ma quando mi metto su una canzone vedo solo come va, capisco com’è il tono… magari in futuro mi porrò il problema su come abbellirla. È un passaggio in meno che faccio, forse, ma seguo l’inevitabilità della cosa e mi va bene così. Sono cresciuto ascoltando Lindo Ferretti che è il mio cantante preferito anche tecnicamente e che è il maestro dell’andare dritto su una nota. Certe cose posso dirle perché sono dette en passant con poche note, se le canti diventano grottesche! In futuro mi piacerebbe scrivere anche cose con meno parole e più cantate, ma non decido io, quel che mi arriva mi sta bene. Mi è capitato di provare delle soluzioni per curiosità e mi son sembrate sempre degli esercizi. Se facessi l’autore per qualcun altro potrei anche seguirle; mi sembra patetico fare un discorso così da romantico ma penso che ragionarci troppo renderebbe tutto meno sentito. Per questo non mi interessa tanto.

Accettare l’inevitabilità di ciò che un artista sa e può fare è un valore a mio parere, anche se non è un disvalore fare l’opposto ed essere strategici e meno istintivi.

Tu puoi fare quello che è in te. Potrei dire ok stupisco tutti ma sarebbe stato solo un processo ingegneristico: fare un disco elettronico o R’n’B – ecco magari R’n’B’ proprio no, non sono capace...

Invece è un’ottima idea!

Sì, sarebbe divertente, R’n’B tutto stonato. Tanto basta essere molto convinti. Mi diceva Giorgo Canali che in un concerto dei Csi Lindo Ferretti aveva cantato il testo di una canzone sulla musica di un’altra e i giornali avevano scritto in caratteri cubitali: “Le ardite dissonanze di Lindo Ferretti”, come se fosse stato intenzionale.

“Italia maledetta / Italia benedetta / Italia solitaria / nel paesaggio dopo la battaglia / Italia senza bandiere”… la title track è De Gregori puro, anche la cadenza classica del pezzo. È la tua ambiziosa canzone sull’Italia, passaggio obbligato per un cantautore.

Quando mi sono trovato a scrivere questo pezzo che ha un’eco del momento che stavamo vivendo nello scorso aprile, mi son detto «Mi sto infilando in un vespaio, non so se la terrò». Mai avrei pensato di fare una canzone d’amore in cui dall’altra parte c’è un’entità come uno stato, anche perché è un genere, ti confronti con pezzi che sono già eterni. Invece ho capito che era importante per me. Scrivendo le canzoni a volte accedo a mie aree d’ombra. Non credo all’attualità delle canzoni, penso ci voglia l’ambizione dell’eternità quando butti giù un pezzo. In questa ci sono i partigiani di Fenoglio, i riders, l’Italia dei terremoti. Poi certo De Gregori è un mio maestro, insieme ai Csi è la cosa che ascolto di più, è quello che ho visto più volte dal vivo. Non so quanto entri nelle mie canzoni poi.

Beh in questa certamente sì. Sia l’andamento musicale che l’uso di parole più esplicite e dirette. Passiamo alla prossima. “Spinta da un’ansia incomprensibile di arrivare a casa” è un verso di Mezza nuda… ma come incomprensibile? L’ansia di tornare a casa è la vita. Più è figa la città più l’ansia è forte! Di cosa parli, ma come ti permetti, ti denuncio!!!

Ahahahah. Cazzo è vero non ci avevo pensato! Indubbiamente, anche io ho un po’ l’ansia di andare a casa, ma non di correre a casa. A Milano a volte sono posseduto dalle altre menti agitate e mi trovo che non ho letteralmente un cazzo da fare e sono lì in metro che corro pure io. Mi dico «ma dove cazzo corri, che devi solo ammazzare il tempo?».

Io ti sto parlando di una condizione esistenziale di fondo, dai, tornare nell’utero, la casa! Contesto il tuo aggettivo, ti trascino al tribunale degli aggettivi.

Non ci avevo riflettuto abbastanza, ahahahah, in effetti perché “incomprensibile”? Boh.

Dovevi scrivere “l’ansia giustificata di tornare a casa”! Non ti denuncio solo perché stiamo ridendo e siamo entrambi già a casa. Due animali in una stanza, suona un po’ faticosa a questo punto del disco. La cadenza, il recitato. Apprezzo l’integrità ma non ti viene voglia di metterci un urlo disarticolato o una cassa dritta?

In questo disco è andata così, ma capisco cosa intendi. A un certo punto questo disco mi è sfuggito di mano, non sono più riuscito a controllarlo, adesso con calma, capisco cosa dici, effettivamente avevo pezzi ai quali delegavo quel ruolo, ma poi li ho tolti. Mi sono detto mancano due canzoni ritmiche, ma mi pareva che fosse un esercizio, come completare un cruciverba e allora ho lasciato perdere. Ma ci sono pezzi più distanti dagli altri, per esempio Adriatico, che è una specie di liscio esistenzialista

Adriatico: il liscio è diventato mainstream. A me fa un po’ tristezza. Questa nostalgia di vecchi che ballano. Non c’era nemmeno il viagra, al tempo delle balere. Giusto il lambrusco che li aiutava a dimenticare e produceva racconti immaginari – da ubriaco ti benedico, dici nel pezzo…

È molto diverso per me perché a Ferrara le balere erano anche le discoteche dei ventenni, gli unici posti in cui mio padre andava a ballare. Certo ora sono rimasti solo i vecchi, ma un tempo era vitale. Quello che mi interessava del liscio è quando i Cccp facevano Guerra e pace o Battagliero in balera, cantando testi assurdi con un look che non c’entrava niente, facendo schifo sia ai punk sia a quelli che volevano ballare il liscio.

Maestri totali del situazionismo – e di tante altre cose, forse troppe. Luna crescente: “Ho chiesto di te alle montagne / alla nebbia sulle campagne / ho chiesto di te alle foreste bruciate / alle creature che non sono scappate / ho chiesto un parere alle rocce cadute / sulla statale ma stavano male”. L’impossibilità del dialogo con qualcosa che non siamo noi e la conseguente, inevitabile caduta.

Eh le rocce stavano male perché erano sulla statale, erano un po’ acciaccate. Però sì, io provo a parlarci con la natura, mi pongo in una modalità di ascolto diversa, provo ad andare oltre le nostre antennine dei cinque sensi, che vedono e sentono ben poco. Per noi sono tutto, ma è solo quel che siamo. Oltre che del cogito ergo sum mi fido molto del sento dunque sono. La città! Tutto è fatto dagli esseri umani per gli esseri umani, non ci sono più neanche i piccioni, non c’è niente di più strano e morboso che aver creato un posto solo per noi dal quale gli altri esseri viventi scappano a zampe levate. Io ho una grande passione per le grandi città in realtà, e per i paesini abbandonati, quindi sto in mezzo.

A me piace tutto, non ho ancora trovato un posto non interessante.

I supermercati non sono interessanti!

Ma va, sono fighissimi. Basta aspettare, accade qualcosa.

Allora il supermercato deserto non è interessante.

“Facciamo che” il primo che trova un posto totalmente non interessante ne scrive all’altro e poi ne facciamo un racconto. Titolo: questo posto non è interessante.

Ahahah, ci sto. È interessante questa cosa del posto non interessante.

Ma non valgono le foto, va descritto. Penso che la psicologia della fruizione sia molto sottovalutata. Vorrei che mi dicessi quali sono le condizioni ideali di ascolto del tuo disco.

Non ci ho pensato. A me viene da dire che è un disco fuori tempo e fuori luogo, serve una situazione nella quale fai un’azione nel dare ascolto, come se non fosse un movimento involontario.

Puoi collegarlo a una cyclette e quando uno smette di pedalare si interrompe la musica.

Ahahahah. Può essere un’idea.

Come in Luna crescente ne Il sentiero degli Dei interroghi la natura, con un senso di sacralità irrimediabilmente sconfitto. Sono saltati tutti i piani… già è tanto averne, no?

Ahahah, sì. Ho sentito una conversazione tra due tizi, uno diceva di un tale che il suo piano B era usare la casa al lago come studio di registrazione e l’altro gli rispondeva «Ma io non ho neanche un piano A!». Sì, anche questo pezzo ruota intorno alla natura, al dare la giusta dimensione a noi come specie. Tengo molto alle ultime parole di un disco e in questo dico “siamo solo due forme di vita sul terzo pianeta del sistema solare”. Siamo una specie così poco evoluta ancora!

Ci vedi piccoli, indifesi e un po’ sfigati. Schopenhauer, Leopardi e altri amici.

Io credo molto nel fatto che non si può passare la vita ad attribuire a cause esterne cangianti il proprio benessere, inseguire le sensazioni piacevoli e scacciare le spiacevoli.

Altro che razza non evoluta, siamo proprio dementi! Le situazioni nel mondo sono imprevedibili, non posso delegare completamente il mio essere a quello. Mi colpisce che ci sentiamo una razza superiore, ma in base a cosa? Perché c’è stato Beethoven? Ma un uccello sa volare e una pianta vive più a lungo di noi. Qual è la gara?

Mmm. Non siamo una razza superiore, ma siamo una specie che ha una cosa che nessun altro ha: l’autocoscienza. Siamo coscienti di essere mortali ad esempio.

Ma neanche la scienza occidentale ha veramente capito cosa sia l’autocoscienza. I tibetani dicono che la “preziosità” dell’essere incarnati in un corpo umano è la migliore delle rinascite possibili ma che è anche la causa della sofferenza, è il prezzo che la consapevolezza paga per potersi manifestare dentro un corpo.

È rimasta la prima domanda, normalmente comincio da qui, ma i tuoi testi mi hanno sfruculiato, quindi, anziché la prima domanda sarà l’ultima. Il tuo romanzo di formazione. Famiglia, adolescenza, il primo ricordo e tutta quella paccottiglia lì.

Forse quando ho uno in classe con me alle superiori che è un certo punto si presenta a scuola pieno di tatuaggi e piercing. Lui era tutto quello che non ero io, eravamo in prima seconda superiore, io ero sempre in tuta, facevo canottaggio, tutti i giorni andavo sul Po a remare. A differenza del calcio ti dovevi allenare tutti giorni, non c’era neanche una ragazza e non aveva nessun appeal sociale, il canottaggio.

Ma mi piaceva stare al freddo sul Po, con la corrente e le nutrie. Quando ho conosciuto questo ragazzo ho “visto” il punk, una cosa che io neanche avevo mai sentito nominare. In un attimo mi ha sconvolto, siamo entrati subito in connessione anche se io in quel momento ero ancora molto diverso da lui.

Mi ha detto «Ma tu non suoni? ma inizia anche tu a suonare!». Io ho detto che non sapevo niente di musica e lui mi ha consigliato di cominciare con il basso «che ha solo quattro corde quindi è ancora più facile». Io sono andato subito a prendere questo basso. La cosa buffa è che io sono mancino ma ancora adesso suono da destro perché al tempo non sapevo che ci fossero gli strumenti per i mancini. E così tutto ha avuto inizio.

Tipo quello che mettono in porta perché gliene manca uno e poi diventa portiere del Milan.

No, comunque dicono che se fai come ho fatto io non puoi arrivare, ammesso sia importante, ad essere un virtuoso, superare una certa soglia tecnica. E però alla fine come dico in Chitarra nera a suonare sono rimasto solo io.

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