Ora che Marko Vešović ci ha lasciato (fatale un male incurabile, è spirato venerdì scorso), il ricordo corre all'inverno di trent'anni fa, 1993, il secondo inverno dell'assedio di Sarajevo quando già tutti gli alberi della città erano stati tagliati e consumati come legna da ardere. Marko, imponente nel suo massiccio fisico montenegrino, stava nella modesta casa in centro, vestito con una pesante vestaglia rossa e lisa. Strappava pagine dei libri della fornita biblioteca, le gettava nella stufa per riscaldare la sua bambina. Era un padre tardivo. E piangeva. Poi si era asciugato le lacrime per raccontare il metodo con cui era costretto a privarsi dei volumi.

Aveva cominciato, senza troppo rammarico, con gli scritti di Nikola Koljevic, serbo, il collega alla facoltà di lettere e filosofia, rinomato shakespearologo, l'amico con cui aveva condiviso le passeggiate lungo la Miljacka parlando di cultura, o le notti con gli stessi argomenti accompagnate dalla grappa. La guerra li aveva divisi. Koljevic sui monti a fare da foglia di fico culturale al disegno della pulizia etnica e per questo ripagato con la reboante e misera carica di vicepresidente della Repubblichetta dei serbi di Bosnia. Marko a prendersi in testa le bombe dell'ex teorico della fratellanza tra i popoli slavi del sud, voltagabbana per sete di potere, fino a maturare un rancore profondo per il tradimento di quello che sembrava un comune sentire. Marko lo malediceva in pubblico: «Nikolino, un giorno anche tu finirai come tua madre nel fiume Vrbas». Riferimento «crudele e di cattivo gusto», come ammetteva, al suicidio della genitrice, «ma io non potrò mai perdonare».

Per tutta risposta Nikola gli aveva spedito un proiettile, chissà per quali vie nella separazione pressoché totale che c'era tra aggressore e aggredito. Qualche tormento doveva tuttavia ossessionarlo se al termine del conflitto Koljevic si era sparato in testa. Vešović aveva commentato: «È stato ed è per me il grande enigma di questo conflitto, la mia ossessione. Ho detto spesso che dovevano arrestarlo per falsa identità, perché quello che ordinava il massacro di Sarajevo non poteva essere l'umanista sensibile e generoso con cui era molto piacevole conversare». Esauriti i libri dell'ex amico, la scelta di cosa sacrificare nel fuoco al minimo benessere della famiglia si era fatta più dolorosa, finché era arrivato il turno dei classici. Per questo Marko Vešović piangeva in quell'inverno di neve e granate a Sarajevo.

Ma tra il sacrilegio di mandare in fumo la cultura e il caldo per la sua piccola la scelta era obbligata. Nell'episodio c'è tutto l'uomo, il docente, lo scrittore, il poeta, il giornalista, nato a Pope, in Montenegro, nel 1945, intellettuale tra i massimi dell'Est Europa, laureato nella capitale della Bosnia che eleggerà, e per sempre, a sua città dell'anima perché gli corrispondeva quell'intrico di genti diverse accumunate dalla lingua, il minimo comune denominatore per lui fondamentale. Quando l'ex Jugoslavia cominciò a implodere, inizio degli anni Novanta, le sue origini in un paese ortodosso fecero credere ai serbi che potesse essere facilmente iscritto alla loro causa e contro i musulmani maggioritari in Bosnia. Errore.

Non era un Karadzic, pure montenegrino e poeta (ma di scarse doti), roso dall'ambizione di potere che lo spinse fino alla pianificazione del genocidio. Non era come tanti altri colleghi professori che, nel momento fatale, scelsero l'opportunismo, i vantaggi derivanti dall'appartenenza al gruppo dei più forti. Integro e fedele a se stesso accettò di stare dalla parte delle vittime pagando il prezzo di essere considerato un traditore, il destino voluto anche dal generale serbo Jovan Divjak, scomparso due anni fa, con cui spesso veniva apparentato. Rivelerà: «Immenso Jovan, un giorno, durante l'assedio, vedendomi teso mi disse che il sesso orale è un toccasana per i nervi». La sua scrittura spesso polemica aveva assunto, con il conflitto, tratti più duri, la sua ironia da dolce si era fatta feroce.

Sarcastico era stato anche il titolo per l'unica traduzione italiana di un suo libro Scusate se vi parlo di Sarajevo (prefazione di Federico Bugno, traduzione di Nadira Sehovic, Sperling & Kupfer, 1996), a sottolineare come quella tragedia europea non era stata compresa ed era stata presto espulsa dal dibattito pubblico come per il timore che evocarla equivalesse a un contagio. Nonostante la sua scelta netta, il dopoguerra non è stato facile per lui. Nella terra dove hanno vinto i nazionalismi, le radici montenegrine gli venivano additate come una colpa tanto che ripeteva di essere felice sono con quella decina di amici con cui aveva condiviso le idee e i giorni peggiori. Né servì, per far comprendere a tutti la sua statura, il rifiuto del prestigioso premio letterario “Risto Ratkovic” attribuitogli in Montenegro nel 2008: non poteva stare nello stesso albo d'oro del genocida Radovan Karadzic che lo aveva vinto nel 1993. Nella confusione di una terra che ha perso le coordinate della bellezza della convivenza, la speranza è che, se Marko Vešović non c'è più, resti la memoria del suo insegnamento.

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