Certi film puoi guardarli come una mise en abyme. Almeno nel senso che una storia contiene altre storie, le riflette e le condensa.

Nella storia di Nottefonda, opera prima di Giuseppe Miale di Mauro in sala da oggi con Luce Cinecittà, nell’avventura umana che racconta e nel suo approdo cinematografico, confluiscono sedimentazioni di arte e di vita che lo rendono più singolare e più interessante di un comune film di consumo.

C’è la storia del Nest (acronimo di Napoli Est Teatro), il gruppo che ha tra i suoi fondatori Francesco Di Leva e Miale di Mauro, regista storico della compagnia popolare. A San Giovanni a Teduccio, uno dei quartieri “difficili” di Napoli, il Nest è stato un innesto radicale di speranza e recupero sociale, nato nella vecchia palestra di una scuola abbandonata e stabilmente sedimentato dal volontariato di artisti e tecnici nei laboratori teatrali gratuiti rivolti in particolare ai giovani.

C’è la storia speciale di Francesco Di Leva, panettiere ragazzino in famiglia conquistato dal teatro, interprete del Gomorra messo in scena e portato in tutta Europa prima che nemmeno si immaginassero film e serie, e infine promosso al grande cinema e ai premi soprattutto dal Mario Martone de Il sindaco del Rione Sanità e poi di Nostalgia. Suo figlio Mario, che lo affianca in Nottefonda ma ha mosso i primi passi col Sindaco, 15 anni in questi giorni, sta rivelando lo stesso talento e la stessa passione del padre.

C’è infine la storia del romanzo scritto dal regista dal di dentro di quel mondo, La strada degli americani, pubblicato da Frassinelli nel 2017, libro partecipato e condiviso dai suoi compagni di lavoro, al tempo stesso consiglieri, modelli e primi lettori.

E della lunga avventura che ha riportato questo film, com’era logico e naturale, in seno alla “famiglia” del Nest, senza affidarne ad altri scrittura, regia e interpretazione.

Una Napoli nordeuropea

Non è una Napoli convenzionale, quella del film. E non pretende di rappresentare, aspirazione comune a più o meno tutti i film sulla città, “la vera Napoli”. È quel reticolo di strade periferiche e buie nell’area della Circonvallazione Esterna, spesso illuminate solo dai fanali delle auto.

È una città invernale con i colori e le atmosfere dei mari nordeuropei, con le gru del porto, il rumore dei muletti in azione, i container pronti a partire, i cavalcavia che isolano invece di unire. Ed è una notte senza alba, anche metaforicamente, quella che imprigiona Ciro e il suo lutto inguaribile.

Da un anno trascorre le notti al volante, alla ricerca impossibile dell’auto che ha ucciso sua moglie, offuscato dal crack con cui si stordisce, perseguitato da un abisso di disperazione di cui scopriremo la vera, incalcolabile portata solo alla fine del film.

E solo alla fine scopriremo la realtà allucinata, distorta, che abbiamo condiviso nel vagabondaggio di Ciro e del suo figlio tredicenne (Mario Di Leva), sua ombra inseparabile in questa ossessiva discesa agli Inferi. Luigi, col suo sogno di un videogame mai ricevuto, è la parte indicibile del senso di colpa e di perdita ma anche il simbolo di una speranza possibile, di una solitudine che si può combattere con qualche aiuto, di un destino di annientamento di sé che non è per forza segnato.

La loro è una recitazione asciutta, stringata, con certi silenzi che pesano più delle parole, per niente scontata tra chi ha legami di sangue così stretti.

«Ciro gira con una pistola, sostanzialmente per usarla contro sé stesso», dice Francesco Di Leva, «ha deciso di mollare. Luigi per lui è la parte di sé che gli chiede di restare in vita». «Nottefonda mi ha costretto a riflettere da vicino su una grande verità. Le cose che ti segnano la vita, le grandi svolte, non sono gli eventi clamorosi, non è la vincita all’Enalotto, sono le piccole cose che sembrano irrilevanti, il caffè offerto da quel barista pietoso, lo sguardo di una sconosciuta che ti dice: perché non mi guardi?»

Un libro tornato a casa

«Con quel libro di Giuseppe, La strada degli americani, mio figlio ci è cresciuto», racconta l’attore, «andavamo alla Feltrinelli e leggevo brani del romanzo con Mario sulle mie spalle. Fa parte della sua vita. Nel film abbiamo messo a fuoco solo una delle tre storie originarie.

E ha fatto un suo lungo cammino tra vari produttori per tornare di nuovo a noi. A parte il direttore della fotografia e Cecilia Zanuso al montaggio, sceneggiatori, tecnici, attori, siamo tutti del Nest».

L’affiatamento, la comunanza di intenti, il collante che li lega anche nella vita infatti si avvertono, una consapevolezza omogenea che non è di mestiere, ma politica in senso lato, nel senso di diritti e rigore, di coerenza e legalità militante, senza vanterie retoriche. È una famiglia allargata che ha il gusto e l’armonia della condivisione e si alimenta ininterrottamente di nuovi giovani attori, «figli o no, perché sono tutti figli nostri, non facciamo nessuna differenza».

«Giuseppe ha pensato a noi scrivendo il libro, come ha pensato agli altri, ad Adriano Pantaleo per il personaggio di Carmine e a Giuseppe Gaudino per quello di Rosario. Eravamo noi fin dalla pagina scritta, ma per altri registi proposti dalle produzioni noi non sembravamo appetibili, nomi di nessun richiamo. Era nell’aria che dovevamo farlo tra di noi».

Piccoli attori crescono

È emblematica anche la storia artistica di Francesco Di Leva, nata grazie a una figura di teatro amatoriale che per vivere faceva tutt’altro mestiere, un signore di nome Ciro Zinno.

«Ha voluto comprarsi il biglietto per venire all’anteprima napoletana di questo film. Quando l’ho conosciuto avevo l’età di Mario oggi, e ha capito subito che si poteva incanalare la mia energia (che si potrebbe tradurre in casino) in qualcosa che aveva un senso. Per fortuna l’ha fatto, perché poi alla fine è questione di perseverare.

Ha avuto la costanza di venirmi a prendere e di riaccompagnarmi a casa dopo le prove, di convincermi quando non ci volevo andare. Io ci andavo da solo, non accompagnato da mia mamma, in tempi in cui il teatro non era come adesso alla portata di tutti, era irraggiungibile, elitario, non ti facevano un provino neanche se ti ammazzavano.

E poi Martone, una figura importantissima. Gli incontri che fai ti cambiano la vita. È come una staffetta: quella cosa che si passavano di mano in mano ero io. Qualcuno ha provato a farmi zoppicare, ma in cinque o sei per me hanno corso tantissimo. Pensi sempre che le vere scelte dipendano sempre da te, ma le cose belle ti devono anche capitare».

Avete mai ragionato sull’affinità che lega certa scuola, non ufficiale, di recitazione partenopea alla grande tradizione britannica? Il cordone ombelicale con il teatro, mezzi tecnici zero e un pubblico fatto anche di due persone, non si spezzerà mai. È una sponda speciale, cittadina del mondo. Qualcosa di simile, in musica, alla filiazione autoctona del blues.

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