Fiona McCrae ha ricevuto ieri il premio “Cesare De Michelis” durante l’inaugurazione del festival internazionale di letteratura Incroci di civiltà. Per 27 anni lei è stata direttrice di Graywolf Press, una casa editrice indipendente che, come si legge nel suo sito, ha «l’obiettivo di promuovere un nuovo pensiero su ciò che significa vivere nel mondo di oggi». Ha preso le redini di Graywolf venendo da una lunga esperienza con Faber&Faber, la grande casa editrice di T. S. Eliot, W. H. Auden, Seamus Heaney, Silvia Plath e tanti altri importanti autori, soprattutto di poesia.

Cosa ha significato per lei e cosa s’è portata dietro di quell’esperienza?

Ho iniziato a lavorare per Faber&Faber, a Londra, nel 1982. Dopo quasi dieci anni, nel 1991, mi sono trasferita nella loro sede americana a Boston, molto più piccola rispetta a quella londinese. Quando mi sono trasferita a Graywolf, ho potuto portare con me sia l’esperienza della grande editoria letteraria, basata su un alto standard qualitativo, maturata alla Faber&Faber londinese sia l’operatività in scala ridotta ma più indipendente della sede di Boston. A Faber&Faber ho imparato che è il catalogo degli autori che crea la spina dorsale di una casa editrice, per così dire, fornendole una costante e solida presenza nel panorama editoriale. Inoltre, lì ho appreso che pubblicare libri di poesia è redditizio, perché i bassi costi di produzione sono ampiamente ripagati non solo dalle vendite, ma dalla durata del catalogo, al contrario di alcuni cliché che invece vorrebbero considerare la poesia come un cattivo investimento. A Londra ho scoperto che, se alla base del tuo lavoro ci sono un’integrità intellettuale e un senso del dovere sociale, puoi prendere l’attività editoriale con una sana dose di umorismo, libertà e inventiva. Come sub-editor ho imparato a guardare ai margini del panorama letterario mainstream per presentare proposte nuove e interessanti. Nella sede di Boston sono venuta a contatto con l’editoria minore e indipendente americana e con il mondo letterario di quel continente.

Cosa le ha fatto decidere di lasciare Faber&Faber per lavorare a Graywolf Press?

Intanto devo dire che già conoscevo il catalogo di Graywolf da quando lavoravo a Londra. Ammiravo le loro scelte indipendenti e avevo conosciuto il fondatore e direttore di Graywolf, Scott Walker, che consideravo un eroe del mondo editoriale. Mai avrei pensato che un giorno avrei assunto il suo ruolo. Inoltre, l’esperienza a Boston mi aveva insegnato che l’editoria indipendente, che negli Stati Uniti era più solida che in Gran Bretagna, poteva avere un ruolo molto importante. Infatti, le maggiori case editrici americane sembrano avere una certa soglia di tiratura di copie sotto la quale non prendono nemmeno in considerazione tanti autori interessanti che non soddisfano le loro attese di vendita e dunque sono disponibili per un’editoria alternativa. Aggiungo che l’industria editoriale di allora era dominata da troppi maschi e pensavo che sarebbe stato meglio dirigere un’impresa più piccola ma vivace che continuare ad avere una posizione subordinata in un colosso editoriale. Infine, non volevo lavorare in un luogo in cui il tuo ruolo è quasi puramente economico, come convincere un autore a vendere il suo libro a te piuttosto che ad altre case editrici. Era meglio presentarsi come editore con cui può essere culturalmente interessante pubblicare le proprie opere.

Cosa ha significato lavorare per una casa editrice non profit dal punto di vista delle strategie economiche?

Quando sono arrivata a Graywolf, era già considerata una casa editrice leader per le sue scelte culturali e letterarie. Allora riceveva alcuni contributi da grandi fondazioni ma non faceva raccolte fondi da singoli privati, o in modo molto limitato. Quindi mi sono prefissa di curare quel tipo di finanziamento. Quando sono arrivata a Graywolf, la raccolta fondi ammontava a poco più di 10.00 dollari all’anno. Poi negli anni è cresciuta fino a superare i 500.000 dollari. I sostenitori delle case editrici indipendenti sono diventati sempre più sensibili alla necessità di mantenere la varietà del panorama editoriale e la solidità dell’editoria non profit, anche perché le sovvenzioni delle grandi istituzioni si sono ridotte nel tempo. Inoltre, il nostro catalogo si è irrobustito nel tempo e questo ha migliorato i nostri profitti. È un processo positivo che non ha toccato solo Graywolf ma l’insieme delle case editrici indipendenti, anche quelle più piccole di noi.

Le grandi istituzioni e gli individui contribuiscono ancora all’editoria indipendente?

Le grandi fondazioni purtroppo stanno trasferendo le loro sovvenzioni su altri settori, che considerano più importanti per la loro visione della giustizia sociale. Gli individui invece continuano a contribuire in modo importante all’editoria indipendente perché sono interessati a che il mondo letterario continui a funzionare. So che in altri paesi, anche in Europa, questo tipo di filantropia individuale è poco praticato ma lì la sovvenzione pubblica della cultura, ottenuta attraverso la fiscalità generale, è di gran lunga superiore che negli Stati Uniti. Qui sono i singoli a sostenere la propria radio o televisione locale, una casa editrice indipendente o un museo.

Quali strategie ha adottato per fidelizzare i vostri sostenitori?

Graywolf organizza degli incontri fra i propri donatori, alcuni autori, i nostri editor e altri lavoratori della filiera editoriale, per mostrare il backstage della nostra attività, i vari processi di produzione, valorizzazione e commercializzazione di un libro. I nostri sostenitori apprezzano molto questo tipo di coinvolgimento. Quello di raggiungere un ampio numero di sostenitori è stato un processo molto interessante per me, durante la mia direzione di Graywolf. Per quasi tutte le imprese non profit i donatori sono uno dei due pilastri principali della propria sostenibilità economica, assieme alla vendita dei libri.

Graywolf si è contraddistinta per la presenza di importanti scrittori e scrittrici nel proprio catalogo, inclusi premi Nobel, Booker, Pulitzer, eccetera. Come è giunta a costruire questo catalogo?

Quando sono approdata a Graywolf non ho voluto assolutamente cambiare le strategie di base della casa editrice. Graywolf aveva iniziato a pubblicare solo poesia e poi s’è allargata ai campi della narrativa e della saggistica. La centralità della poesia ci ha permesso di avere uno sguardo ampio, un’apertura alla sperimentazione e all’inventività e allo stesso tempo un’attenzione alla leggibilità e fruibilità delle opere che volevamo pubblicare. Il fatto di essere editori non profit ci ha spinto a cercare storie e autori originali. Per noi non era importante rifare l’ennesima edizione tascabile di Jane Austen; invece, volevamo puntare su autori e autrici nuove, originali e contemporanee. Uno degli esempi di spicco di questa politica editoriale è Citizen di Claudia Rankine, che è diventato un best seller internazionale. Era un libro originalissimo che poteva sembrare difficile da collocare sul mercato e che invece ha venduto moltissimo. Abbiamo pubblicato scrittori interessanti che erano stati rifiutati da altri editori oppure messi in un angolo dei loro cataloghi e di fatto dimenticati. Noi li abbiamo portati al centro del nostro catalogo e valorizzati. Poi abbiamo iniziato a curare anche le traduzioni, introdotto un premio per la non fiction, e in questo modo abbiamo garantito anche una varietà di generi e di autori, producendo un catalogo al contempo variegato e armonico, come se i nostri libri si parlassero l’uno con l’altro.

Ci può dire cinque parole o frasi chiave con cui consigliare gli editori indipendenti e “minori” nel loro prezioso lavoro?

Pensate con lungimiranza; innovate senza seguire le mode; abbiate iniziativa; rischiate; e apritevi a nuove voci ed esperienze.

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