Cinque anni fa, il 4 novembre 2015, moriva René Girard, uno tra i più importanti filosofi del Novecento. Senza dubbio uno fra i più controversi, se si pensa che ad essergli contestata è stata perfino la definizione di “filosofo”: gli hanno dato dell’etnologo, dell’antropologo, del teorico delle religioni (come fossero insulti), secondo quell’infelice diffidenza che spesso il mondo culturale nutre nei confronti di chi coltiva l’ambizione di idee grandi e onnicomprensive.

Un’ambizione che in effetti Girard ha sempre avuto: ha usato le discipline più varie – dallo studio delle religioni primitive alla teologia cristiana, dal mito greco alla critica letteraria, dallo strutturalismo alla psicanalisi – per un unico scopo: spiegare i principi primi di funzionamento della civiltà. Non questo o quell’aspetto, ma i motori basilari della nostra cultura. La definizione di uno specifico campo d’azione per René Girard è quindi davvero difficile: come si può classificare chi ha avuto la pretesa di spiegarci come funziona l’uomo?

Come spesso capita a chi viene esiliato da un campo, Girard è stato felicemente accolto in un altro: quello meno rigoroso e più colorito dei letterati e in particolar modo dei teatranti: i suoi lavori su Sofocle e su Shakespeare hanno ispirato attori, drammaturghi e registi più di quanto sia accaduto a filosofi e scrittori. Uno degli spettacoli teatrali italiani più discussi e importanti degli ultimi anni, Ifigenia liberata, di Carmelo Rifici, nasceva proprio da una riflessione sui suoi scritti.

Succede spesso che i grandi nuclei del pensiero filosofico diano i frutti migliori nelle opere artistiche e non in quelle teoriche. Chi conosce Girard non se ne stupisce: lui stesso amava più drammi e romanzi che i trattati, ed era lì che trovava le sue parabole. È stata sempre una sua ferrea convinzione: l’utilità della letteratura non è quella di fornire un trastullo agli accademici, ma di svelare i meccanismi della vita: rivelarli, renderli leggibili.

Conformismo e competizione

La sua prima opera importante, Menzogna romantica e verità romanzesca, era basata proprio su quest’assunto: non esiste il desiderio diretto, chi desidera non desidera mai spontaneamente un oggetto, ma lo desidera perché qualcun altro lo desidera. L’idea del desiderio puro è un mito romantico. Si desidera sempre qualcosa che altri stanno già desiderando: e quegli altri diventano i nostri modelli, e insieme i nostri rivali. È il principio sia del conformismo che della competizione. Adoriamo il modello, desideriamo quello che lui vuole – e nel contempo lo detestiamo, perché quello che lui vuole è tolto a me. Ogni desiderio non è mai un rapporto a due: coinvolge sempre qualcun altro. Girard, lui sì, il triangolo l’aveva considerato.

È un’idea pericolosa. Se ogni desiderio umano si fonda sulla rivalità, vuol dire che ogni desiderio può portare allo scontro. Da qui il passo è breve: ogni comunità, se non addirittura ogni rapporto umano, è sempre in bilico sulla violenza. L’unico modo con cui una comunità può evitare di disgregarsi nella violenza, secondo Girard, è la religione. Il rito sacrificale è quel dispositivo con cui una comunità protegge sé stessa da un’escalation di violenza che altrimenti la distruggerebbe.

Il suo libro forse più famoso e fondativo, La violenza e il sacro, apparso nel 1972 con scandalo di molti, traccia un nesso molto chiaro tra questi due termini: qualsiasi civiltà nella sua storia ha avuto bisogno di un rito sacrificale per espellere la violenza dal proprio interno: una violenza rituale ai danni delle vittime. L’unica salvezza di una comunità è il capro espiatorio. Nella storia delle culture, soltanto il cristianesimo effettua una rottura: la croce svela il meccanismo della vittima, lo rende manifesto, rivelando agli uomini in modo definitivo che ogni contratto sociale è fondato nella violenza sulla vittima.

Profeta contemporaneo

In ogni opera, intervento o intervista, come una specie di profeta contemporaneo, René Girard ha voluto articolare quest’idea (da me maldestramente sintetizzata). Come ha detto Roberto Calasso, Girard è di quegli autori il cui pensiero ruota instancabilmente intorno a un solo tema: il capro espiatorio. Tema più che mai attuale. Sarebbe ingenuo infatti pensare che le nostre società d’oggi siano finalmente libere dal meccanismo della violenza: non solo nelle sue guerre esterne, ma ancor più nei suoi funzionamenti endogeni. Come ha scritto Girard: credersi immuni dalla violenza significa perpetuare le condizioni perché essa continui indisturbata. Nessuno pensa mai di essere un violento, ed è proprio questo che gli permette di continuare ad esserlo. Ogni violenza si autogiustifica, ed è questo il segreto che ce la fa tollerare:

«Definiamo la violenza come una cosa che appartiene agli altri. Ma non è vero. Nessuna forma di violenza si sviluppa pensando a sé stessa come violenza, come aggressione. L’uomo è per sua essenza competitivo e incline alla rivalità. Vuol essere migliore del vicino, e quindi compete con lui. Quando analizziamo una situazione violenta, la definiamo sempre come aggressione altrui, ed anche la nostra controparte la definirà come tale. Nove volte su dieci dietro la violenza non si trova l’aggressività, ma la competizione, la quale non può essere attribuita a una parte sola: entrambi gli individui hanno ugualmente torto e ragione, si comportano in modo uguale e simmetrico. La situazione è inestricabile e non può essere risolta in modo “legale”».

I nostri mezzi di violenza sono forse meno sanguinosi di quelli delle tribù amazzoniche: ma sono poi così diversi? La violenza è tra noi, basta guardarsi intorno: i meccanismi del linciaggio dilagano incontrollati, e anzi amplificati e brutalizzati dai social media. Il coro della tragedia greca – espressione emblematica, secondo Girard, della folla violenta – è diventato un coro molto più ampio e immateriale, ma ugualmente unanime, e spesso molto più brutale. Chi frequenta i social sa che il linciaggio è all’ordine del giorno.

Perseguitare i persecutori

«Oggi», ha scritto Girard in Origine della cultura e fine della storia, «si possono perseguitare solo i persecutori. Uno deve dimostrare di avere per avversario un persecutore se vuole soddisfare il proprio desiderio di persecuzione». Il vittimismo dilagante nella comunicazione a tutti i livelli altro non è che il tentativo di legittimare una violenza analoga e maggiore.

I meccanismi della violenza mimetica non risparmiano neanche il discorso politico. È un copione divenuto abituale nelle ultime campagne elettorali: ogni movimento avversario è utilizzato per legittimarne uno analogo e più grave, a cui l’altro risponde con un altro rilancio, in una spirale irrefrenabile in cui il discorso degenera, le parti si polarizzano, e l’unica cosa visibile resta lo scontro in sé, il puro conflitto, la lotta in quanto lotta.

La violenza dilaga, e i capri espiatori che si succedono uno dopo l’altro sembrano non bastare più. Né, forse, può essere altrimenti, in un sistema come il nostro in cui la competizione – cioè la rivalità – è il fondamento stesso del funzionamento economico e sociale. In quest’ottica, la crisi del sistema non è un accidente, ma un’ovvia conseguenza: «Il riscaldamento climatico del pianeta e l’aumento della violenza sono due fenomeni assolutamente legati. Ma più la fine si fa probabile, e meno se ne parla. Bisogna dunque svegliare le coscienze assopite. Voler rassicurare significa sempre contribuire al disastro».

Non è un caso che viviamo in un’epoca in cui, come ha scritto Raffaele Ventura, «abbiamo l’impressione di vivere contemporaneamente una crisi economica e una crisi ecologica e una crisi epistemologica e una crisi politica e una crisi sociale e una crisi culturale». Girard ha usato un concetto per definire il momento di una società in cui tutte le crisi arrivano a un punto di non ritorno, e la comunità subisce una deflagrazione, una destabilizzazione irreversibile: quello di «crisi mimetica».

Lo spiega prendendo ad esempio il suo testo letterario più frequentato: Edipo re di Sofocle. Nella nota lettura di Girard, Edipo è una vittima: la città di Tebe, esasperata, completamente destabilizzata, individua nel protagonista il capro espiatorio di una situazione divenuta ormai fuori controllo. Cos’aveva scatenato quella crisi tragica? Un’epidemia.

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