Ho litigato con un mio amico che nella sua ostinazione sembra aver dimenticato una lezione che avevamo imparato da ragazzini (e che appartiene a tutta la nostra generazione): non dobbiamo per forza fare come Sisifo e condannarci a spostare un masso inamovibile per inseguire un successo che non dipende solo da noi
Un sabato sera dello scorso gennaio Federico, prendendo posto vicino a me al Frida, bar di Milano, mi ha detto d’aver fatto una cosa di cui era felice.
«Mi sono iscritto a un corso di tennis».
Abbiamo litigato – non discusso: litigato. Tanto che dopo mezzora gli altri del gruppo, zitti, fissavano i boccali di birra – in cui restava solo schiuma.
Io e Federico siamo amici da 25 anni; e non per dire: ci siamo conosciuti alle elementari e, aldilà dei pochi, brevi periodi in cui ci siamo visti e sentiti meno – dovuti all’andamento sinusoidale d’infanzia e adolescenza –, siamo sempre stati intimi. Elementari, medie, liceo, università, primi anni nel mondo del lavoro, degli adulti: ci siamo visti crescere; e ci siamo pure un po’ cresciuti a vicenda. Era lui l’amico con cui facevo i compiti dopo scuola, con cui ho studiato per la maturità, con cui sono partito nell’estate del quinto liceo, che mi ha aiutato a traslocare a Roma, per l’università, poi a Milano (qui), per lavoro – mi conosce come le sue tasche, lo conosco come le mie.
Ecco, con lui in prima media mi sono iscritto a un corso di tennis.
Esperienza sul campo
Eravamo due bambini, dieci anni io e undici lui, avevamo già praticato degli sport, nuoto io e calcio lui, ma ce ne eravamo stufati entrambi e avevamo chiesto ai rispettivi genitori di poter provare altro. Lunedì, mercoledì, venerdì, dalle sei alle otto di sera: racchette in spalla, montavamo nell’auto di una delle madri, che si alternavano, e pigliavamo lezioni.
Autunno, inverno, primavera, un pezzo d’estate: saltammo poche lezioni, e ci piaceva, ci andavamo con una certa felicità. Presto però dovemmo prendere atto della verità: eravamo scarsi. L’autunno seguente riprendendo dopo la pausa estiva difatti ciccavamo troppe palle, le battute finivano a rete, non eravamo capaci di prevedere la traiettoria dei colpi. Ma non ci importava: noi volevamo solo divertirci. Finito l’anno, e cominciato il successivo, però, divertente non lo era più; a quel punto era solo frustrante. Fui io a prendere il toro dalle corna.
Lo annunciai a Federico a ottobre della terza media: volevo lasciare.
«Ma vuol dire arrendersi».
«E con ciò?»
Non lo sapevamo ancora, eravamo dei bimbi, ma in quella crepa c’era la grande differenza tra me e il mio amico: io a un certo punto mollo, lui no.
Federico continuò fino a marzo, poi si ruppe il polso e dovette fermarsi per un po’, quindi colse la palla al balzo e al tennis non ci tornò. La verità era che non migliorava, e dopo tre anni dovette dirsi lui stesso che forse arrendersi non era un’idea pazza. Due anni dopo però, in terzo liceo, s’iscrisse a un corso di tennis; allenatore diverso specificò come se all’epoca il problema fosse lui. Lasciò l’anno dopo ma la racchetta la riprese: quinto liceo, terzo di università, secondo di magistrale, quel sabato al Frida – a trent’anni.
Perciò ho sbottato.
Come Sisifo
Che senso ha perseverare a questa maniera?, mi domando. Federico in tutti questi anni avrebbe potuto imparare un mucchio di cose. Un’altra lingua, a cucinare, suonare uno strumento: avrebbe potuto impiegare il proprio tempo in qualsiasi altro modo – forse diventando bravo in uno sport diverso, uno per cui fosse portato. Ma no, si è incaponito nelle sue pretese infantili e io proprio non lo capisco – e così ci ho litigato.
Quella sera, andando a dormire, ho pensato a Sisifo, re di Corinto.
Uno stinco di santo Sisifo non lo era, e, dopo averle combinate d’ogni, dopo aver fatto infuriare gli dèi, dopo averli ingannati più volte, fu punito per l’eternità, la pena: spingere un masso su per una montagna senza mai fermarsi e solo per poi, raggiunta la cima, vederlo rotolare a valle, solo per poi, quindi, ripetere tutto ancora e ancora.
Fatica inutile. Energie sprecate.
Settimane fa sul New Yorker ho letto un articolo dal titolo “Should you just give up? Sisyphus couldn’t stop pushing his boulder, but you can”, titolo che tradotto suona così: Dovresti semplicemente arrenderti? Sisifo non poteva smettere di spingere il suo masso, ma tu puoi.
La domanda che si fa Rothman, l’autore, è: quando dovremmo arrenderci? Certamente, scrive, non dobbiamo rinunciare troppo presto ai nostri sogni – ai grandi e agli stupidi. Né dobbiamo chiudere una relazione perché ci sono problemi di coppia, né un lavoro perché pesante, né un film perché non ci piace fin dall’inizio. Dobbiamo perseverare, sì. Dobbiamo essere individui affidabili, eroici, determinati. Ma accanirsi può essere un errore: a volte dobbiamo ammettere d’esserci persi, scrive Rothman, di non esser tagliati per qualcosa, per lasciarci andare, infine, al fallimento.
Ma quanto sforzo, quanto tempo sono necessari per poter dire d’averci provato? Quando continuare a lavorare diventa poco saggio, stupido, inutile?
Non penso esista una risposta univoca a domande del genere, dipende, com’è sempre, dalla situazione in cui ci troviamo e dal carattere che abbiamo. Al tempo stesso però sono convinto che oggi arrendersi sia difficile, qualcosa che non possiamo permetterci. Nella società del se vuoi puoi, se non riesci in qualcosa, se fallisci, il problema sei tu.
Una liberazione
Però.
Però a volte, credo, mettere un punto, fermarsi o cambiar via ha senso.
Che non vuol dire arrendersi subito, deporre le armi al primo ostacolo, abbandonare sogni, desideri, ambizioni: la speranza ci spinge lungo il tragitto, è vitale, e rinunciare alle nostre aspirazioni perché il viaggio è troppo faticoso, tortuoso, sarebbe uno sbaglio. Non voglio elogiarlo, il fallimento, ma metterlo nel novero delle possibilità, tutto qui. In fondo, che male c’è a non esser bravi in qualcosa, a dire «questo non so farlo», «di questo non so abbastanza per dar un’opinione», «ho provato ma non sono riuscito, ho fallito»?
Non soltanto non c’è niente di male, è anche liberatorio.
Le nuove generazioni, i Millennial e la Gen Z – anche se quest’ultima, mi sembra, in maniera più lucida –, che il fallimento non sia un luogo pestifero da rifuggire con ogni fibra del nostro essere l’hanno capito. Il se vuoi puoi sta, per fortuna, perdendo terreno. Dettame sociale tossico, è sempre più la regola da non seguire, su cui non fare affidamento.
No, volere non è potere. Tuttalpiù è provarci, e va bene così. Come dice Rothman, Sisifo non poteva smettere di spingere il suo masso, ma noi possiamo; certo, non nel senso inteso da Camus, secondo il quale questo – spingere il nostro masso eccetera – sia il senso ultimo dell’esistenza tutta, ma in un senso più pratico e immediato.
Dobbiamo liberarci dell’idea per cui è sufficiente lavorare, sacrificare tempo ed energie per raggiungere qualsiasi obiettivo ci siamo posti, dobbiamo liberarci dell’idea che quando falliamo la colpa sia sempre e necessariamente nostra. A volte è colpa nostra, sì: ci distraiamo, ci arrendiamo prima di quanto dovremmo o magari, semplicemente, sbagliamo.
Ma a volte può pure capitare di sognare per dovere, perché il mondo, attorno a noi, ci pare tanto grande, la gente, attorno a noi, talmente di successo da farci sentire in obbligo di ambire a niente di meno. E allora no, se falliamo non credo sia colpa nostra. Questo meccanismo, molto alimentato dai social, Millennial e Gen Z l’hanno ormai capito, l’hanno ormai, per fortuna, assimilato.
Dobbiamo lottare, sì. Ma dobbiamo anche imparare a distinguere quali battaglie vale la pena combattere, quali no. Dobbiamo perseverare, continuare a desiderare, lavorare per i nostri sogni, sì. Ma dobbiamo anche prendere atto dei nostri limiti e lì fermarci. Per quanto possa sembrare paradossale, decidere di fuggire, di gettare la spugna quando il gioco non vale la candela, quando la strada da percorrere andrebbe oltre le nostre capacità, ci permette di realizzare più di quanto saremmo riusciti a fare incaponendoci su ciò in cui abbiamo già fallito, e nel frattempo possiamo pure goderci un po’ di più la vita.
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