Nella flagranza di reato architettonico che è la piazza centrale di Montecampione 1200, resort sciistico nella bresciana, ad attirare l’attenzione è la vetrina della boutique Michelle Ferrè. È coperta di ritagli di giornale, come quando si fanno lavori all’interno dei negozi e coprono le vetrine per pudore. Ma pudore di cosa? Mi sono sempre chiesto cosa ci fosse da nascondere. Mi avvicino dunque incuriosito, al momento non c’è davvero null’altro nello spiazzo semi-circolare che risulta dalla sequenza altrettanto circolare di condomini bassi, in stili vicini ma non simili; aggravante.

Scopro che i ritagli hanno un senso. Non coprono le vetrine, al contrario; le arricchiscono. Le parole che ricorrono di più sono Fiorello, sfilata, alta moda, Montecampione. Apprendo che un giorno dei primi anni Novanta si sarebbe tenuta una sfilata – proprio qui nella piazza – condotta da Fiorello (Beppe, non Rosario). E che nel 2016, nel quarantesimo anniversario della prima sfilata, quindi AD 1986, Fiorello (Rosario, non Beppe) abbia mandato un videomessaggio di benedizione. Tuttavia, nell’articolo del 2016 già si accenna alla grave crisi di Montecampione, crisi dalla quale «si può e si deve riprendere». Basterebbe questo, forse, a dire cos’era Montecampione; un tentativo di Kortina di serie B a un passo da Milano, per Milano. Meglio: per le seconde case dei milanesi.

Quest’ultimo tema, le seconde case per l’appunto, m’appassiona molto anche se nella mia enciclopedia sotto il lemma c’è scritto “manco hai la prima, che ci fai qui? Ripassa dal via”. Oltretutto, nel guazzabuglio dei Dpcm pandemici è saltata fuori di recente la proposta di riservare le piste da sci proprio ai possessori di seconde case, per evitare il turismo di un giorno. La seconda casa sarà dunque tema crucialissimo e divisivo da qui alla strage natalizia.

Tutti tranne i visoni

Sulla statale che abbiamo percorso per arrivare quassù e che corre lungo il lago d’Iseo, avevamo visto un maneggio; cavalli stracchi e indolenti. La prima forma di vita in chilometri e chilometri, ché vien da pensare che i maledetti pipistrelli fossero in combutta con i loro simili per un colpo di stato Orwelliano. Alla riunione in cui venne presa la decisione c’erano tutti tranne i visoni danesi. Non li avevano avvisati ed è finita com’è finita. Penso ai visoni, spero non servissero per fare delle pellicce da indossare eventualmente anche a Montecampione, non lo so, ma se è così, boh, meglio morti che a servire il nostro sovrappiù di lussuria assassina.

La mia fidanzata, che mi accompagna in queste gite pandemiche del weekend e che graziosamente si presta a condividere la sua arte fotografica mi fa notare quanto siano scure le montagne sopra l’Iseo; è un autunno monocromo, dico io. Tutto è fermo; la superficie del lago, il marrone dei monti, i cavalli stracchi. E tuttavia siamo felici; non vedevamo l’ora di stare un po’ in mezzo alla natura – il sole, gli alberi, il lago e venire a raccontare un aspetto poco visibile in questo periodo di furia vacanziera senza se e senza ma. Ovvero gli effetti collaterali della furia stessa, a prescindere dalla pandemia. Ma dopo pochi chilometri la strada diventa una sequenza infinita di gallerie; la claustrofobia accumulata da mesi di reclusione mi invade calma e inevitabile, resisto solo grazie agli slogan leghisti 1.0 che le tappezzano. Prima della svolta nazionalista. Mi fanno quasi simpatia. C’è “Padania libera” che non vedevo da tempo e addirittura qualche oscuro riferimento ai celti. Visti da oggi mi fanno tenerezza i bifolchi indipendentisti padani.

Salendo per la bellissima e selvaggia e deserta strada che porta a Montecampione inizio a chiedermi se incontreremo anima viva lassù.

Con tutta probabilità non ci saranno né baretti ne ristoranti aperti e noi non ci siamo portati un cazzo da mangiare; questo inizia a mettermi un filo d’ansia. L’unica auto che incontriamo ad un certo punto è un enorme Suv Porsche; subito mi chiedo se sia per caso la sindaca di Artogne, che ho provato a contattare per farci due chiacchiere, ma troppo tardi temo. Qualche tempo fa aveva detto a un giornalista della Stampa: «Torneremo grandi». La cercherò in giro come un cane da tartufo. Si chiama Barbara Bonicelli. È leghista. Se googoli tra le prime immagini la trovi sorridente che si fa un selfie con Maroni. Di professione è psicologa. Il mondo è un posto sorprendente.

Siamo quasi a 1.200 metri e io, come sempre in montagna, sbalordisco come un turista che arriva dritto dal deserto del Nevada. Un po’ di ghiaccio lassù basta a farmi fare oooooh. Sono il prototipo del cittadino indolente, che con gran culo ama il mare, almeno quello, per il resto mi basta vedere un grillo per chiedermi attonito cosa sia. Penso a questo, mentre passo accanto a un ristorante chiuso; la dolcezza di un cartello che sembra uscire da un film anni Sessanta recita “Al ritorno sostate al bar Panorama!” scritto a pennello su legno. Che bello. Mi piace la scelta radicale di marketing che invita chiaramente a non fermarsi ora. Al ritorno.

Loro sanno di essere sulla strada per Montecampione e che nulla potrà fermare il turista o il secondocasista dal raggiungere l’agognato paesino-resort. Al massimo, appunto, dopo. Tutta questa naiveté mi consola. Sono venuto qui proprio per questo. Sono venuto a vedere il lato B della questione impianti sciistici – aprire o non aprire – i fratelli poveri di quegli ingordi che gonfiarono le seggiovie un mese fa con grande scandalo – e in effetti, ne scrissi qui, le immagini erano piuttosto violente, visto il periodo. Era un urlo dell’io contro il noi: io scio, non importa a che costo, perché io scio e basta.

“Milano montana”

Montecampione invece è un’altra storia. Sorta negli anni Settanta a quota 1.200 e subito etichettata come “Milano montana”, dopo un boom negli anni Ottanta di secondacasisti milanesi – appunto – si era estesa a quota 1.800 con la costruzione di una gigantesca struttura poggiata (con un certo peso, diciamo) di fonte alle piste da sci. In un paesaggio altrimenti incontaminato. Montecampione 1200 è moribondo – l’albergone là è abbandonato e decrepito da anni, ma è Montecampione 1800, il sogno esclusivo della casetta in multiproprietà/albergo/resort costruito sulle immacolate vette della Val Camonica ad essere sbalorditivo nel suo chiaro e piuttosto greve simbolismo della fame di presente che ci ha attanagliati a lungo e che s’è mangiata un pezzetto di futuro. Perché non bastava costruire dal nulla Montecampione 1200; si è ritenuto necessario scalare il cielo e costruire un Montecampione 1800. Sono certo che qualcuno aveva accarezzato l’idea di costruire un Montecampione 2000, solo che non c’era abbastanza montagna e devono aver desistito, ma non senza lottare, magari proponendo un innalzamento artificiale della vetta. Non mi stupirei.

Come sempre voglio fare benzina all’ultimo minuto perché avendo la macchina ibrida (noi abbiamo la macchina ibrida, non so se ve l’ho già detto) vogliamo sfruttarne tutte le potenzialità di basso consumo e anche basso inquinamento ma ovviamente ogni volta sbaglio i conti e finisco senza benzina. In questo caso arrivati quasi a quota 1200 metri – luogo nel quale avrei fatto benzina secondo i miei calcoli – scopro che non c’è il benzinaio (non c’è niente, a dire il vero) ed essendo il punto interessante a 1800 vado pianissimo, col terrore sull’acceleratore. All’improvviso un distributore, ma è ovviamente abbandonato. Una bellissima pensilina rossa, attraversata da un raggio di sole, e poggiata su due pilastri bianchi squadrati. Bentornati nel deserto del Nevada.

Per arrivare al centro nevralgico e commerciale di Montecampione (la piazzetta circolare dove c’è la boutique Michelle Ferrè) si prende una stradina totalmente bloccata da lavori in corso. Un omino in tuta arancione fa cenno di proseguire nonostante ci siano davanti a me montagne di terra che io scavalco agilmente con la mia macchina (ibrida) per poi passare un incredibile tunnel che passa sotto il gigantesco condominio che è Montecampione e che sbuca di fronte alle montagne sopra il lago d’Iseo e al comodo parcheggio (chiuso).

Tutto dell’insediamento completamente artificiale sembra suggerire che in questo posto non ci sia mai stato nessuno prima degli anni Settanta. Non si sono viste baite, malghe, antiche costruzioni montanare; nulla.

Qui prima della speculazione edilizia non ci viveva proprio nessuno. O così sembra, a meno che una mano sapiente non abbia deciso, per eccesso di zelo, di cancellare le tracce preesistenti. Non ci sono deviazioni, strade secondarie, nulla di nulla. Questa strada porta a Montecampione e basta, una strada di servizio, diciamo. E fu in effetti costruita a questo scopo. Roba da far west, da pioneri, da terra promessa. L’epopea della piccola borghesia lombarda.

Si pensa a Calvino, ovviamente, poi si attraversa Twin Peaks – ma senza legna, solo monti deserti e selvaggi – e si arriverà, ma solo a 1800, a Stephen King. Tuttavia la prima anima viva che incontro non è Laura Palmer risorta e tanto meno il bambino sul triciclo. È un bravo cristo di sessant’anni che come me vorrebbe entrare nel supermercatino che sbuca improvviso salendo una delle scalette che partono dai portici nella piazza principale. Il supermercato chiude alle 12.30. Guardiamo l’ora. Sono le 12.31. Un minuto di ritardo. Niente. L’unico posto aperto è chiuso, in un deserto di precisione.

I fantasmi del boom

A questo punto siamo affamati. Dietro la piazza si snoda un inquietante labirinto di archi e passaggi progettati da un avido lettore di Lovecraft – i fantasmi del boom Ottobre si sentono anche a mezzogiorno in pieno sole. Addentrandomi non senza timore trovo una pasticceria-gelateria. È chiusa. Busso. Busso forte. Arriva una gentile signora che accetta di prepararci due panini.

Fatti i panini e concessoci l’uso del bagno – è vietato, ma ci vuole buon senso, non c’è nessuno – ci racconta come la vede, con voce calda e rotta allo stesso tempo. Chissà da quanto non passava uno straniero a chiederle “Come stai?”. È la prima e unica cosa che le chiedo. Non le serve altro; inizia a parlare.

Racconta che a 1800 c’è solo il mostro abbandonato, che nessuno dei proprietari che si sono avvicendati sembra avesse davvero lo scopo di riattivarlo, il mostro, ma volesse solo «far girare i soldi». Che lei ha perso la speranza, ma che almeno da loro a 1200 un po’ di gente c’era, non tanta, ma un po’ sì. Sprofondo nell’empatia del viaggiatore che presto se ne andrà, consapevole che nulla può fare per queste piccole tragedie personali, piccole piccole se confrontate con quelle grandi che stanno nei titoli. Queste sono tragedie private e oscure, che si consumano giorno dopo giorno, goccia a goccia. Vite intere costruite sulla scommessa al rialzo di imprenditori o semplici speculatori, fate voi, il risultato non cambia.

La solitudine della signora sta qua e niente può alleviarla. Ma è forte, la signora, fortissima anzi; ha un piglio che mi conforta e l’affetto col quale parla del fatto che nel paese artificiale (boom, all’improvviso penso che a Dubai non hanno inventato niente), gli unici essere umani sono studenti universitari, nelle seconde case di famiglia. Altri fantasmi; immagino che palle si faranno e dove si ritroveranno la sera e far che.

Ci congediamo dalla signora promettendole che sulla strada del ritorno ci fermeremo a bere un caffè corretto da lei. Via verso 1800.

Due signore con cane che passeggiano lungo la strada, con evidente accento milanese (fuorilegge!) ci avvisano che la strada per 1800 è ghiacciata e piena di buche. Ovvio. Non la percorre più nessuno. Ma noi, con cautela (abbiamo quasi finito la benzina, scommettiamo di riuscire ad arrivare in cima e sfruttare la discesa per raggiungere il distributore più vicino a 20km) saliamo. All’improvviso dopo tornanti deserti e viste di assoluta meraviglia sul lago e si suoi monti bruni giungiamo alla fine della strada, dove avevano deciso di costruire i soldi. All’ultima curva il serpentone obbrobrioso e gigantesco sembra quasi Mount Rushmore per come si snoda sulle rocce.

Il colosso

È l’unica costruzione visibile ed è la definizione di immanenza. Parcheggiamo; un set incredibile. Il campo da calcio abbandonato, davanti al serpentone e dietro gli impianti di risalita. Sembra pieno agosto ma è inizio dicembre. I cannoni sparaneve fermi.

così come l’anfiteatro adiacente, in moquette bluette e palco semicircolare, adibito probabilmente a piano bar. Ovunque arredi rotti, lugubre devastazione accarezzata dai raggi di sole che entrano dappertutto. Un moon boot su un tavolo.

Gli estintori tutti in fila, come pronti a una gara di lancio interrotta dalla polizia-fantasma. Ogni oggetto mostra chiare le tracce di cosa l’abbia portato lì; quei piatti sono stati scagliati da lontano contro un muro; quei tavoli sono stati rovesciati e lanciati giù dalle scale, dove si accumulano come involontarie barricate. Le stanze, tutte uguali, tutti i cessi rotti; in una o due un materasso o un cuscino.

Abusivi estivi o resti del periodo nel quale la struttura era stata adibita ad accoglienza per profughi siriani. I peggiori di qui dicono che è tutta colpa dei siriani, come se accogliere della povera gente in una struttura abbandonata non sia, da noi, la prova stessa che in quella struttura di soldi non se ne potevano fare più.

Aleggiano altri fantasmi; le multifamiglie delle multiproprietà, il minimo sindacale della seconda casa, è tua ma solo per una o due settimane all’anno, epperò è tua. Fantasmi silenziosi, come il laghetto ghiacciato di fronte alla pista baby. Un tenero cartello vendesi di fronte a tre vetrine sotto il mastodonte – c’era un affitta snowboard. La cosa più stupefacente è quanto la sensazione di indifferenza che mi invade sia ineluttabile. Non viene da pensare ma guarda che schifo; i vetri rotti, i tetti cadenti, le ringhiere di legno abbattute e ogni segno di decadenza rendono accettabile il mostro, è vinto e inghiottito comunque dalla immane superiorità della natura.

Ma è un attimo, restando a guardarlo da fuori a lungo, dopo averne esplorato le interiora marce, capisco quanto l’abbandono recente, il vuoto, lo spazio facciano sempre molto più effetto di una qualsiasi cascina diroccata; è la variabile tempo. In qualche modo ci viene naturale pensare che un rudere sia tale perché ha vissuto nobilmente qualche centinaio di anni, ha fatto il suo, e ora, coperto di vegetazione, è bello e accogliente.

Bonifici con tanti zeri

Qui no; qui il ciclo vitale è stato artificialmente accelerato, si vedono solo i bonifici, i giroconti, da quelli a tanti zeri di chi ha ottenuto il permesso di costruire quassù a quelli, con molti meno zeri, delle famiglie normali, che avevano l’onorevole, tenerissimo, sogno della seconda casa, del weekend sulla neve, della settimana bianca.

Spero non abbiano perso troppi soldi; spero che qualcuno si sia conosciuto quassù, si sia innamorato, che bambini siano stati concepiti. L’altitudine, benché modesta, mi svariona sempre e finisco a pensare cose così. È tempo di scendere, senza benzina, dopo aver mangiato i panini della signora seduti in mezzo al campo da calcio deserto con una vista così assurda che, perdonate, non sono in grado di restituire. Scolliniamo agili e silenziosi, quasi persi.

Giunti a livello del lago, a riportarmi alla realtà è il segno inconfondibile di trovarsi nella ricca e operosa provincia lombarda, ovvero il cartello “Pranzo di lavoro 15 euro” che si ripete identico più o meno a ogni chilometro della statale, a cambiare è solo l’importo. Il più economico vanta un convenientissimo “7 euro”.

Mi chiedo da sempre: ma se io faccio un pranzo di cazzeggio, posso o costa di più? Domanda sciocca. Nessuno cazzeggia. Qua si fanno i danè. Per costruire le seconde case di quelli che hanno messo via altri danè e che vengono a spenderli qui. E si fanno sempre più in alto e sempre più ambiziose, le seconde case. Poi, rimangono lì, diventano tutt’al più uno stuzzicadenti per pranzi di lavoro, due battute sull’ammazzacaffè, che va bene lavorare, ma un cicchetto non ce lo toglie nessuno. Ciao Italia con la ciucca triste, alla prossima tappa.

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