«Gli americani sono sempre stati inconsciamente convinti che tutte le storie avranno un lieto fine». Nei giorni della prima ondata del virus, del primo lockdown, quando sulle vetrine e alle finestre apparivano le scritte «Andrà tutto bene», mi tornava in mente spesso questa frase di Adlai Stevenson, due volte candidato democratico negli anni Cinquanta e due volte battuto da Dwight Eisenhower. La sua storia non aveva avuto un lieto fine: quelle erano le parole di un perdente, dello sconfitto che esce di scena.

Lo sapeva bene Richard Yates, che teneva questa frase appesa nell’ultimo appartamento in cui ha vissuto, accanto alle foto delle tre figlie di matrimoni differenti, differenti in tutto tranne che nell’infelicità in cui erano evaporati.

Adesso che minimum fax porta in libreria una bella edizione che, in due volumi in cofanetto, raccoglie i capolavori di Yates, è il momento giusto per ripercorrere la parabola fatta di alcol e di fumo, di disinganno e di stile di questo grande, grandissimo scrittore del secolo americano.

L’abbandono del padre

Nato a Yonkers, nello stato di New York, nel 1926, Richard Yates è il figlio di un aspirante tenore diventato rappresentante della General Electric. Nella figura di questo padre che abbandona la famiglia quando Richard ha solo tre anni, nelle sue aspirazioni fallite, nel lieto fine negato, c’è già tutto il mondo sentimentale del futuro scrittore.

Non a caso il genitore sarà l’ispirazione per il padre del protagonista di Una buona scuola, romanzo del 1978 fortemente autobiografico, come tutti quelli di Yates. Anche quando gli intrecci e le storie sono inventati, infatti, è sempre possibile scovarne “l’originale” rovistando nella vita dell’autore: la Seconda guerra mondiale combattuta in Europa, la scoperta del vecchio mondo e di una vita diversa da quella alienata degli Stati Uniti e della sua piccola borghesia suburbana, i matrimoni finiti (due per Yates), il successo tardivo, a trentacinque anni, con Revolutionary Road, ma mai pienamente colto (finalista al National Book Award nel 1962 insieme a Comma 22 di Joseph Heller e L’uomo che andava al cinema di Walker Percy, sarà battuto da quest’ultimo), e difficilmente ripetuto dopo, l’insoddisfazione dei lavori per Hollywood, il giro dei campus dove insegnava scrittura, la compagnia costante e sempre più devastante dell’alcol, sono tutti elementi che, più o meno esplicitamente, tornano nei romanzi, in qualche personaggio, o anche solo in quell’atmosferica sensazione di sconfitta che abbiamo imparato a definire come tipicamente yatesiana.

Neanche la sua vita è stata a lieto fine: come detto, i libri successivi a Revolutionary Road non hanno avuto lo stesso successo (per quanto molto belli, in particolare Eastern Parade, che insieme al primo e ai racconti di Undici solitudini e Bugiardi e innamorati è raccolto nei due volumi di minimum fax), l’alcolismo, il fumo e la solitudine segnano i suoi ultimi anni.

A Los Angeles, dove insegnava alla University of Southern California, una notte diede fuoco a casa sua per distrazione. Ha tenuto corsi scrittura in varie università, sempre yatesianamente convinto che la scrittura non si potesse insegnare: ma comunque tra gli allievi ebbe futuri autori come Andre Dubus e Mary Robison. Ormai negli anni Ottanta era uno scrittore dimenticato, la letteratura americana andava da tutt’altra parte, più interessata alle pirotecniche sperimentazioni del postmodernismo, che non a raccontare la vita così com’è.

Il silenzio su Yates è continuato a lungo anche dopo la sua morte, avvenuta nel 1992. Ma all’inizio del millennio qualcosa stava cambiando, i pastiche del postmoderno avevano perso qualsiasi spinta, mentre con scrittori come Jonathan Franzen si tornava a raccontare la famiglia come teatro privilegiato in cui si scontrano i sogni e i compromessi, le ipocrisie e le violenze, come laboratorio politico, un’intera società vista nei suoi elementi essenziali: «Non c’è altro di cui scrivere, oltre la famiglia», disse una volta Yates. Forse non è vero, ma lui lo rese plausibile.

Negli ultimi quindici, vent’anni c’è stato un autentico rinascimento yatesiano, Revolutionary Road (reso ancora più popolare dal film del 2008 di Sam Mendes con Kate Winslet e Leonardo DiCaprio) vede riconosciuto il suo posto tra i grandi capolavori del Ventesimo secolo, quelli che catturano lo spirito di un’epoca, e il suo autore definitivamente messo accanto a J. D. Salinger o John Cheever. Forse, alla fine, un lieto fine c’è stato.

La grandezza dei romanzi di Yates viene da questo essere attraversati in ogni pagina da una bruciante, a volte insostenibile, tragica onestà. A Tragic Honesty, non a caso, è il titolo della monumentale biografia di Yates scritta da Blake Bailey (autore di due altre biografie, altrettanto monumentali, di scrittori che si possono ben avvicinare a Yates: Cheever e Philip Roth – quest’ultima uscirà nell’aprile del 2021).

L’onestà è quel sentimento che ci mostra l’incolmabile distanza tra desiderio e realtà, tra come ci immaginiamo e come siamo, tra quello che vorremmo essere e ciò che siamo realmente.

Se nell’Ottocento è stato Flaubert l’autore che più di tutti ha fatto di questo sentimento dell’altissima letteratura, è negli Stati Uniti che trova, nel Novecento, i suoi migliori narratori.

Almeno in un certo tipo di scrittore: se non una “scuola”, di certo c’è un comune atteggiamento che unisce Fitzgerald (insieme a Flaubert, autore feticcio di Yates: «Se non avessi letto Fitzgerlad non sarei mai diventato uno scrittore»), Cheever, Evan Connell, Frederick Exley, Raymond Carver, Richard Ford fino a Franzen. Molti dei quali (be’, tranne Franzen che ha sublimato col birdwatching) hanno intrattenuto una relazione stabile e problematica con l’alcol. Certe volte le giornate sono semplicemente troppo lunghe per non chiedere al whisky di farle finire prima.

Ma, dicevo, sono americani gli scrittori che hanno fatto di questo sentimento il loro personale grimaldello contro l’ipocrisia (anche se per alcuni è stato il chiodo sulla loro stessa bara) perché hanno saputo vedere la fondamentale contraddizione dell’american dream.

Inchiodati all’identità

Quel sogno che ti dice che puoi essere chi vuoi, che hai la possibilità di diventare ciò che vuoi se lo vuoi abbastanza, che potrai sempre diventare qualcun altro perché tu sei unico e libero, e poi ti inchioda nel tuo ruolo, nella tua identità, nella tua funzione.

Non è un caso che questo desiderio di diventare un altro, questa aspirazione alla fine tragica e fallimentare a coincidere con la propria immagine pubblica caratterizzi due grandi eroi americani. Il protagonista del Grande Gatsby di Fitzgerald che spera di riconquistare il suo primo amore, la ricca e privilegiata Daisy, dopo aver fatto fortuna in Europa: peccato che quella fortuna sia stata accumulata con il contrabbando e altre attività illecite, e il castello in cui vive e tiene le sue leggendarie “cene eleganti”, che dovrebbe testimoniare la sua appartenenza all’aristocrazia Wasp, è letteralmente un falso, ricostruito pietra su pietra da un altro luogo.

È basata sulla mistificazione anche l’identità del più yatesiano dei personaggi recenti della cultura popolare, il Don Draper protagonista di Mad Men: all’inizio della seconda stagione si scopre che quell’uomo affascinante, sicuro di sé, seduttore, perfetta incarnazione degli ideali di mascolinità degli anni Sessanta è un ladro di identità, un disperato che ha rubato il nome e la storia a un compagno d’armi ucciso in Corea. Come ha ammesso lo stesso creatore della serie, Matthew Wiener, Mad Men è fondamentalmente il tentativo di trasformare le atmosfere e i sentimenti di Yates in una serie televisiva.

La prima immagine di Revolutionary Road, una splendida scena corale prima che l’obiettivo si concentri sui protagonisti, è del resto ambientata in un teatro di provincia. Un’ambiziosa, ma mediocrissima, filodrammatica dall’altisonante nome di Compagnia dell’alloro è impegnata nelle sue prove generali. Tra le attrici c’è April Wheeler, la protagonista che per tutto il libro riverserà nel sogno di recitare le aspirazioni per una vita diversa, un’esistenza che la differenzi dai suoi vicini. Ma il teatro è finzione, è una recita, e Yates è bravissimo con pochi elementi a passare in maniera quasi subliminale che i coniugi Wheeler non riusciranno mai a uscire da quel piccolo palcoscenico di provincia, non riusciranno mai davvero a cambiare copione.

La rivoluzione solo promessa

La rivoluzione promessa dal sogno americano, quel diventare chi si vuole, si rivela una modesta revolutionary road, il nome della stradina senza uscita nel sobborgo dove compreranno la loro villetta a schiera, in tutto e per tutto uguale a quella dei loro disprezzati vicini. Tutta questa frustrazione, l’accumularsi quotidiano di rivendicazioni e morti simboliche, nei romanzi di Yates porta sempre a improvvisi scatti di rabbia, a gesti violenti, a scenate che come esplosioni fanno saltare in aria la finzione familiare.

Ma perché uno scrittore come Richard Yates ci parla ancora così tanto? In fondo potremmo pensare che, al di là della qualità letteraria, alla fine Yates resti legato all’America degli anni Sessanta, a quel paesaggio antropologico di villette a schiera, mariti in abito grigio che vanno a lavorare in città e casalinghe infelici.

Che insomma ci parli da e di un’epoca lontana. Non è così: nel frattempo il sogno americano è diventato il sogno occidentale, le sue speranze sono diventate anche le nostre, così come le sue disillusioni. Quello che ci racconta Yates è l’angoscia della classe media che vorrebbe essere unica, che è spinta a immaginarsi unica nei consumi e privilegiata nello stile di vita, ma poi si scopre identica al suo vicino, mediocre, impoverita. E questa paura a lungo compressa genera una risposta violenta, risentita, esplosiva.

Ora, ditemi: c’è una descrizione migliore del populismo?

© Riproduzione riservata