Nello stesso anno in cui lo scrittore inglese Joseph Rudyard Kipling moriva di emorragia cerebrale appena dopo aver letto su un giornale della sua presunta dipartita, e aver perciò comprensibilmente chiesto di essere cancellato dall’elenco degli abbonati, nasceva a Gerusalemme Abraham B. Yehoshua.

Era il 1936. All’età di ottantasei anni il grande romanziere israeliano ha lasciato questa terra e le sue innumerevoli patrie di lettori che, da quando aveva esordito poco meno che trentenne con la sua prima raccolta di racconti fino al suo ultimo romanzo, lo hanno sempre seguito con interesse e affetto, prestando ogni volta ascolto alle sue storie e alla sua umanità.

Aveva la «metodicità dell’impiegato» quando scriveva, ma si notava che per lui la scrittura era una forma di libertà certamente severa ma anche assai dolce. Ha combinato nei suoi romanzi, come la letteratura al suo meglio, il miracolo della vita biologica e l’altrettanto sorprendente miracolo dell’immaginazione. Si può dire che si sia scrupolosamente attenuto – con tutto il talento e la perspicacia di cui era stato fatto dono – a quello che secondo Milan Kundera sarebbe il compito del romanziere: Yehoshua ha cioè vissuto la sua lunga carriera artistica dedicandosi all’«esplorazione di ciò che la vita umana è diventata in quella trappola che è il mondo».

E lo scrittore nato a Gerusalemme, e che ha prestato servizio per l’esercito del suo paese, e che ha scritto L’amante all’indomani della guerra del Kippur, e che ha vissuto l’attacco israeliano al Libano, e che negli ultimi anni ha perso la moglie a cui era devotamente innamorato e gli amici fraterni, di trappole ne ha osservate e suo malgrado vissute parecchie. E per uno scrittore come lui più sono le trappole e più stilisticamente versatile sarà la fuga da quelle tagliole e da quegli inganni che di volta in volta proporrà a favore di sé stesso e dei suoi lettori.

Una città “mista”

La Gerusalemme in cui nacque ottantasei anni fa, figlio di una famiglia sefardita, era una città “mista”, come la ricorda Amos Oz, uno di quei carissimi amici che recentemente Yehoshua ha dovuto piangere. Una città in cui c’erano quartieri arabi e c’erano quartieri ebraici, una colonia americana, un quartiere tedesco e uno greco e tra le cui strade, scriveva sempre Oz nel suo Contro il fanatismo (Feltrinelli, 2004), «le tensioni interconfessionali erano tali che ci si poteva o diventare matti oppure sviluppare un ottimo senso dell’umorismo, o ancora, un senso di relatività».

La sua sistematicità, quella tenace attitudine a rispettare quotidianamente e con la massima disciplina la routine creativa, lo rese bersaglio degli amichevoli sfottò di Amos Oz, che quando sapeva che Yehoshua stava lavorando a un nuovo romanzo, sempre così metodico e preciso, gli domandava se avesse finalmente «completato il suo cruciverba».

Yehoshua viveva ad Haifa, dove insegnava Letteratura comparata e Letteratura ebraica. Laureato in Letteratura ebraica e Filosofia all’Università Ebraica di Gerusalemme, insegnò nelle Università di Harvard, di Chicago e di Princeton. Visse anche a Parigi, dal 1963 al 1967, e nella capitale francese, oltre all’insegnamento, ricoprì l’incarico di segretario generale dell’Unione mondiale degli studenti ebrei.

Il Signor Mani

Considerava buffa l’abitudine diffusa di considerarlo uno scrittore di idee; quel che a lui interessava, infatti, più di qualunque altra cosa, era che nei suoi romanzi prevalessero le emozioni, i legami tra gli individui, i sentimenti e i profili psicologi dei suoi personaggi. E con il Signor Mani, per cui ideò una serie di dialoghi in cui però al lettore era concesso di conoscere la storia soltanto grazie all’unica delle voci che compariva, scrisse il romanzo a detta del suo stesso autore mai più eguagliabile.

Cercava cuori che non si accordassero al suo e lingue con cui discutere fino allo stremo delle forze.

Non ha mai scritto come un politico, pur essendo stato uno degli scrittori più influenti e rispettati dei tempi e dei territori mediorientali in cui era nato. Forse fu D. H. Lawrence che un giorno disse che per scrivere un romanzo occorre essere capaci innanzitutto di assumersi una mezza dozzina di conflitti e sentimenti contraddittori e opinioni inconciliabili, esibendo però allo stesso tempo un grado di convinzione e un fervore uguale per ciascuno di quelli. E si può star certi che la mente di Yehoshua ospitasse un ginepraio di visioni conflittuali da primatista mondiale e i suoi romanzi traggono la loro linfa vitale da quel coacervo culturale in cui è cresciuto, da quello scontro di valori incapace di integrarsi e da quelle tensioni che lacerano da tempo immemore la sua terra natale.

Non per niente considerava L’urlo e il furore di Faulkner, quel coro di voci diseguali e discordanti, tra i libri capitali del Novecento. E anche quando ha raccontato il matrimonio, e l’ha fatto nella Sposa liberata, Yehoshua si è mostrato interessato ai «dissapori e agli inevitabili litigi» dell’istituzione matrimoniale, e non alla sua veste romantica. Diceva di non attingere alla sua vita privata o a quella dei suoi famigliari, ma di ficcanasare tra le tragedie altrui.

I suoi finali

È stato uno dei grandi autori internazionali e, come si conviene ripetere in tristi occasioni simili a questa, se è scomparso lui almeno non scompariranno i suoi libri. E in effetti i suoi libri – pubblicati in Italia dalla casa editrice Einaudi – rimarranno. E rimarranno i finali dei suoi romanzi. Leggerli ora aggiunge un’altra commozione a quella suscitata dalla dipartita del loro autore. La figlia unica, l’ultimo romanzo pubblicato in Italia, finisce con questo dialogo: «Allora cosa vuoi che venga al mondo? – Qualcuno che rimanga con me. – Con te? – Sì, con me. Non un dio ma un fratello, un fratello che stia con me quando tu non ci sarai più».

Il responsabile delle risorse umane finisce così: «Perché no? Non hanno il diritto di venire? – Il diritto? Il diritto? – L’urlo angosciato del proprietario della fabbrica di Gerusalemme sovrasta ora il frastuono dei macchinari. – Ma che dice? Tutto questo non ha senso. – Un senso, signore, lo troveremo insieme. Io, come sempre, l’aiuterò».

Fuoco amico finisce così: «Che c’è da non sopportare? – protesta lei. – Adesso ti metti a parlare come Yirmy? – Come Yirmy o no, questo canto non mi piace. – Ma non ti succederà niente se lo canterai con me, in duetto». L’amante si congeda così dai lettori «La gente si domanderà: che cosa è successo a Na’im, che d’improvviso è così pieno di belle speranze».

Ricordare Yehosuha leggendo alcuni finali dei suoi romanzi è un’ipotesi di congedo che è praticabile per tutti i suoi lettori. È così pieno di belle speranze/un fratello che stia con me quando tu non ci sarai più/io come sempre ti aiuterò a trovare un senso, insieme a te/se canteremo in duetto non ti capiterà nulla di male. Abraham “Boolie” Yehoshua è morto, ma i suoi romanzi di eredità tragiche e conflitti insanabili finiranno con speranze e fratellanze, per sempre.

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