Se volessimo delineare una delle tendenze più recenti delle piattaforme streaming globali in termini di contenuti, ci accorgeremmo immediatamente della prolifica esplorazione del mondo dello sport sotto una nuova veste di racconto e rappresentazione: quella del documentario e della docu-series che celebrano le imprese di un atleta o di un team. Da The last dance sulla figura di Michael Jordan al ciclo All or nothing sulle stagioni di importanti club inglesi fino a decine di altri titoli, le piattaforme cercano nelle icone sportive più amate e pagate un modo per sopperire, almeno parzialmente, alla mancanza di diritti per la trasmissione degli eventi live. È un’inclinazione ormai consolidata che trova in una narrazione drammaturgica portata all’estremo e in un approccio iper-realistico, con le telecamere che entrano negli spogliatoi e varcano limiti che parevano inviolabili, i propri punti di forza.

Decisamente meno battuta è, invece, la strada della fiction pura, della serie tv che non si limita a fotografare e descrivere vicende reali, ma tenta di fonderle con il meccanismo del racconto seriale, mescolando i generi e articolando linee narrative anche distanti tra loro. Non è operazione facile per almeno due ordini di motivi: in primo luogo per una ragione produttiva, dal momento che girare scene di azioni di gioco e di gesti tecnici e atletici è, come si può immaginare, molto complicato, e dall’altro per una questione che investe i linguaggi stessi del mezzo televisivo, a suo agio nel mettere in scena lo sport come evento o come documento storico e informativo, ma meno adeguato a calarlo in una dimensione prettamente finzionale.

Ecco perché, da questo punto di vista, un prodotto come The english game è qualcosa di unico, riuscendo a ripescare dal passato una storia di sport dimenticata e trasformarla in una proposta seriale a tutto tondo. The english game è una produzione originale Netflix, disponibile sulla piattaforma, incentrata sulla storia vera di Fergus Suter (un perfetto Kevin Guthrie), uno scalpellino scozzese che alla fine dell’Ottocento lascia Glasgow per trasferirsi nel nord dell’Inghilterra, precisamente a Darwen, località del Lancashire fiorita intorno all’ascesa dell’industria tessile. Insieme al compagno Jimmy Love, Suter viene ingaggiato dalla squadra locale di calcio, primo caso di calciatore professionista, attirando così le ire e lo sconcerto dei club londinesi legati all’aristocrazia e all’ideale romantico e amatoriale del nascente gioco del calcio. La serie origina da un’idea di Julian Fellowes e degli autori di Downton Abbey e conferma la predisposizione della serialità britannica per il period drama (da The Crown a Victoria, da Poldark a Peaky Blinders), la fiction storica e in costume che punta a restituire affresco e sfumature di un’epoca. Nella cura dei dettagli, nelle ambientazioni suggestive e nelle astute intuizioni registiche, come la scelta di privilegiare i primi piani nelle scene di gioco evitando così il rischio della ripresa dell’azione e della palla in movimento, si vedono tutto il mestiere e l’abilità di una scuola di racconto seriale di sicuro affidamento.

Un viaggio nella storia

La particolarità di The English Game consiste nel prendere a pretesto la nascita del calcio per affrontare le trasformazioni sociali della Gran Bretagna della seconda metà dell’Ottocento, come l’ascesa della working class della seconda rivoluzione industriale e il mondo dell’alta società con i suoi rituali antichi e immutabili, costantemente stretta tra slanci etici e arroccamenti a difesa di privilegi conseguiti. «Non è solo calcio, è qualcosa di più», dice Fergus Suter ai suoi compagni, operai dello stabilimento locale che giocano per la gloria o poco altro. In effetti, la serie è davvero un viaggio profondo dentro l’anima originaria del people’s game per eccellenza, il “gioco del popolo” che lo storico Eric Hobsbawm definì senza mezza termini come la vera «religione laica del proletariato britannico». Nella vicenda di Suter e della sua squadra che si ritrova in corsa per la vittoria nella FA Cup, la leggendaria coppa nazionale ancora oggi trofeo ambitissimo per i club inglesi, si scorgono i tratti di un viaggio di riscatto e redenzione che passa non solo da un’inevitabile contrapposizione di classe, ma anche da un’analisi raffinata della differenza tra approcci tattici e modelli di gioco; lo scozzese Suter è portatore di una visione del calcio innovativa, più corale e meno individuale, che richiama la distinzione tra passing game e dribbling game ripresa, tra gli altri, dal filosofo francese Jean-Claude Michéa. Il “gioco di squadra” scozzese, di cui si appropriano i club operai inglesi del nord, contro il calcio solitario fondato sull’ideale aristocratico della prodezza individuale; è anche lungo questo filo sottile che si sviluppano la presa di coscienza di un calcio professionistico nel senso più puro del termine (la working class non aveva lo stesso tempo e gli stessi soldi dei club più ricchi per potersi allenare e permettersi le trasferte) e la progressiva erosione del sistema precedente, rappresentato e incarnato dalla squadra degli Old Etonians londinesi, i cui calciatori sono anche membri della federazione e fanno di tutto per estromettere i “professionisti” dal torneo. Stella degli Old Etonians è Arthur Kinnaird (Edward Holcroft), che per primo intuisce il cambiamento in atto, cerca di entrare in sintonia con le richieste provenienti dalle fabbriche del nord e si batte per un compromesso che possa salvare lo sport inventato dai rampolli dell’aristocrazia. Il passaggio di Suter al Blackburn (che genera disappunto tra gli stessi compagni del Darwen) è il compimento di un passaggio d’epoca per il calcio britannico e mondiale; nel 1883, la sua nuova squadra sarà il primo club espressione della classe operaia a vincere la FA Cup, interrompendo il dominio delle élite londinesi.

Risvolti melodrammatici

E proprio a Lord Kinnaird e alla moglie Alma (Charlotte Hope) è legata una delle linee narrative parallele della serie, che trascina il racconto su terreni più femminili e dai risvolti melodrammatici. I due, sposati e innamorati, perdono il bambino che stanno aspettando; un fatto doloroso che li porta a interessarsi della causa e della situazione delle ragazze madri, fenomeno alquanto diffuso nell’Inghilterra di fine Ottocento che completa così il quadro di un periodo complesso e denso di contraddizioni e rivendicazioni. La panoramica sul dramma dei brefotrofi è uno spaccato di povertà ed empatia che consente alla serie di allargare il proprio pubblico oltre la cerchia ristretta degli sportivi, favorendo una visione ampia e meno selettiva. Nella metamorfosi di Kinnaird e di Alma c’è una delle chiavi di volta della serie: non è un racconto di buoni e cattivi, ma di uomini (e donne) che trovano anche nelle ragioni più distanti dalle proprie il modo per progredire e avanzare insieme. È forse questo uno dei lasciti principali di The english game: lo sport come specchio di un cambio di sistema, di un ordine sociale in procinto di modificarsi per sempre. Un’intuizione che vale come esempio vincente per una narrazione sportiva non ripiegata esclusivamente sul dettaglio tecnico, ma capace di superare il confine dello specialismo e parlare una lingua più larga e accessibile.

Finalmente, anche l’Italia non sta a guardare; intorno a una figura iconica come Francesco Totti, esempio di celebrity autenticamente nazional-popolare, sono in uscita un film-documentario classico diretto da Alex Infascelli e, soprattutto, una vera e propria serie tv, Speravo de morì prima, con Castellitto jr. nei panni del “Pupone”, una co-produzione tra Sky, la Wildside di Mario Gianani e Capri Entertainment di Virginia Valsecchi.

Lo sport non è solo evento o memoria, ma motore inesauribile di storie e immaginari.

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