L'eccesso di zelo dei giudici sportivi ha trasformato un dissenso individuale in caso politico nazionale. E nel mezzo della tempesta si ritrova la giocatrice di beach volley brasiliana Carolina Salgado Collett Solberg, nota come Carol Solberg. Finita al centro di una polemica esagerata per avere esternato il proprio dissenso verso il presidente Jair Bolsonaro. L'episodio è avvenuto lo scorso 20 settembre, al termine di una manifestazione sportiva.

Con l'atleta che è stata oggetto di un procedimento disciplinare concluso con un'ammonizione. Ma la vicenda è tutt'altro che finita. Perché gli avvocati dell'atleta si sono già messi in azione rivendicando la lesione del diritto alla libertà di espressione.
Non solo. L'ex calciatore della nazionale Romário, oggi politico ed esponente del Partito socialista, ha presentato un emendamento alla legge nazionale sullo sport (la Lei Pelé, firmata dall'ex O Rei) per normare questo specifico aspetto. Per l'ennesima volta, quindi, si pone il tema della libertà di manifestazione del dissenso da parte degli atleti.

Una questione particolarmente sensibile negli anni recenti, ma che nel Brasile bolsonarizzato assume una valenza particolare perché a rischio di determinare enormi discriminazioni.n

Volleista nata, spirito libero

Classe 1987, nativa di Rio de Janeiro, Carol ha trovato nella pallavolo una via naturale verso la realizzazione sportiva. È stata volleista (sia indoor che beach) la madre Isabel Salgado, e sono volleisti i fratelli Pedro e Maria Clara Solberg (quest'ultima ha fatto più volte coppia con Carol nel segmento beach). Quanto a lei, si è ritagliata una notorietà nazionale non soltanto per le performance sulla sabbia.

Un'antica relazione col tennista Gustavo “Guga” Kuerten l'ha proiettata sulle pagine dei rotocalchi, mentre dalla successiva e stabile relazione col fotografo Fernando Young (famoso in patria per essere il fotografo di riferimento per il cantautore Caetano Veloso) sono nati due figli.

Domenica 20 settembre, nell'arenile di Saquarema, Rio de Janeiro, dopo aver conquistato la medaglia di bronzo nel circuito nazionale, ha strappato il microfono alla compagna di squadra Talita nel corso della diretta televisiva della premiazione e ha urlato lo slogan del diffuso dissenso contro il presidente: «Fora, Bolsonaro!».

Posizione personale? Così sarebbe, ma non per la Confederação Brasileira de Voleibol (CBV). Che il giorno stesso dell'episodio ha pubblicato una nota sul proprio sito ufficiale per «esprimere in modo veemente il proprio ripudio» verso l'utilizzo a scopo politico di manifestazioni da essa organizzate, aggiungendo che il gesto di Carol Solberg «in nessun modo si coniuga con l'atteggiamento etico che gli atleti devono sempre mantenere».
Il giorno dopo lo stesso sito ha ospitato un comunicato dell'ancor più irregimentata Comissão Nacional de Atletas de Vôlei da Praia (cioè colleghi e colleghe di Solberg) che ha ribadito il concetto: fuori la politica dai campi da gioco e «lotteremo al massimo perché questo tipo di situazioni non si verifichi nuovamente».

L'atleta è stata deferita al Superior Tribunal da Justiça Desportiva (Stjd) con l'accusa di avere violato gli articoli 191 comma III e 258 del Código Brasileiro da Justiça Desportiva. Che in realtà hanno un dettato alquanto vago. Il primo fa riferimento all'avere «mancato di rispettare o aver reso difficile il rispetto» del regolamento generale o speciale della competizione. L'articolo 258 è relativo a «condotte contrarie alla disciplina e all'etica sportiva».

Nemmeno un po' pentita

Un riferimento più chiaro, in rapporto all'articolo 191, viene dal regolamento degli Open di beach volley 2019-20. L'annesso V, punto 3.3, recita: «Il giocatore s'impegna a non divulgare, attraverso i mezzi di comunicazione, le proprie opinioni personali o informazioni che riflettano critiche o possano, direttamente o indirettamente, pregiudicare o denigrare l'immagine della CBV e/o i patrocinatori o partner commerciali della manifestazione».

Sulla base di queste accuse Carol ha affrontato il panel del Stjd e fieramente ha affermato di essere «nemmeno un po' pentita». Il procedimento si è tenuto il 13 ottobre e i pronostici parlavano di 6 tappe del circuito da saltare per squalifica e una multa da 100 mila reais (quasi 15 mila euro).

Invece la sanzione è stata estremamente più blanda: l'atleta è stata ammonita e invitata a non pronunciare mai più quel «Fora, Bolsonaro!». Probabile che spingere i giudici verso una sanzione così leggera sia stato il crescente sdegno che la vicenda ha scatenato in Brasile e all'estero. Persino dall'ufficio del Ministerio Publico Federal brasiliano sono state espresse perplessità sul procedimento disciplinare?

Se si tace su chi acconsente

Gli avvocati di Carol sono già partiti all'attacco: vogliono fare di questo caso lo strumento di una battaglia per l'affermazione del diritto degli atleti al dissenso. Un diritto particolarmente contrastato, come dimostra il doloroso caso di Colin Kaepernick nella Nfl o i mugugni provocati dalle prese di posizione degli atleti di ogni disciplina in favore della campagna Black lives matter.

Fino a giungere all'estremo del caso che riguarda Mesut Özil, calciatore tedesco di origine turca. È il tesserato più pagato dall'Arsenal ma è stato messo fuori dalla lista dei 25 calciatori che prendono parte alle competizioni ufficiali. Una decisione che da qualcuno è stata interpretata come conseguenza delle sue denunce contro la repressione della minoranza uigura in Cina e del fastidio provocato presso chi controlla il munifico mercato televisivo e pubblicitario cinese.

Ma allora dissentire si può, o gli atleti devono stare zitti e giocare? Se lo è chiesto, per l’appunto, anche il senatore Romário, che ha presentato una proposta di modifica dell'articolo 48 della Lei Pelé a tutela della libertà di espressione. Ma soprattutto c'è da risolvere una questione dirimente: se anziché dissentire esprimono consenso, gli atleti non fanno forse politica anche in quel caso? Se lo è chiesto Leandro Mitidieri, il rappresentante del Ministerio Publico Federal che ha aperto un fascicolo sulla vicenda. Per quale motivo, si è chiesto, quando i volleisti Wallace e Maurício Sosa mimavano il numero 17 la CBV non ha preso iniziative disciplinari nei loro confronti?

Per la cronaca, il 17 era il numero della lista elettorale di Bolsonaro nelle consultazioni che lo hanno portato alla guida del paese. Dunque quello di Wallace e Maurício Sosa era un gesto politico. Così come, per richiamare l'esempio più eclatante, i ripetuti e espliciti gesti compiuti da Felipe Melo del Palmeiras (ex centrocampista di Fiorentina, Juventus e Inter), con tanto di saluto militare al “suo” presidente.

Ciò che fa emergere una ben strana concezione, rispetto alle esternazioni “tollerabili” di impegno politico da parte degli atleti. Se dissentono “fanno politica”, in un senso che li equipara a dei pericolosi sovversivi. Se invece esprimono consenso verso il regime politico vigente, nessun problema. Funzionano anche così le post-democrazie.

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