Roman Krznaric, filosofo sociale atteso al festival di Internazionale a Ferrara oggi, 30 settembre, alle 18 per un dialogo con il filosofo Leonardo Caffo, mi parla su Zoom dalla sua casa di Oxford. A un certo punto si alza e disegna sul muro (ha un muro lavagna) due cerchi che si intersecano. «Uno rappresenta l’arte di vivere, l’altro il cambiamento sociale. I miei libri cerco di scriverli mantenendomi alla loro intersezione».

E ci riesce: proprio in quella intersezione si collocano Empatia. Perché è importante e come metterla in pratica (tradotto da Maria Sara Cetraro per Armando editore), e il recente Come essere un buon antenato. Un antidoto al pensiero a breve termine (Edizioni ambiente, traduzione di Laura Coppo).

Come ha deciso di occuparsi di empatia?
È una storia di momenti. Ricordo che una volta camminavo per la strada, a Oxford, e c’era un senzatetto che vedevo sempre. Raccoglieva mozziconi di sigaretta, parlava da solo, scalzo nella neve. Non credevo di avere granché in comune con lui. Ma quel giorno mi sono fermato a parlargli e ho scoperto che aveva studiato filosofia all’Università di Oxford, come me.

E che aveva un grande interesse per Aristotele, Nietzsche e la pizza, come me. Ho pensato: siamo sempre pronti a giudicare gli altri. Quante volte ci mettiamo nei loro panni? Quante volte vediamo oltre la superficie? Ah, poi siamo diventati amici. Mia madre è morta quando avevo dieci anni. Molti anni dopo, quando già mi interessavo all’empatia, ho letto la biografia di Albert Speer.

L’autrice, Gitta Sereny, si chiede: com’è possibile che quest’uomo tanto amabile con i suoi amici fosse pure l’architetto del Reich?, e ricostruisce la sua infanzia senza amore, la difficoltà a stabilire legami emotivi. Leggendo mi sono reso conto che in seguito alla perdita di mia madre avevo perso la capacità di connettermi agli altri. Il mio interesse di adulto per l’empatia rispondeva al desiderio inconscio di recuperare l’io empatico che avevo perso da bambino. Almeno, così l’ho raccontato a me stesso.

Pensa che l’empatia di cui parliamo oggi sia una metamorfosi della philìa, l’atteggiamento di amicizia e benevolenza a cui Epicuro, in un momento di crisi lontano da quello che ora viviamo, incoraggiava i discepoli?
Sono sempre stato interessato ai molti concetti di amore espressi in diverse parole greche: philìa, agàpe, eros. Credo che fra queste parole si possa rintracciare l’inizio della storia dell’empatia. Ma è nel teatro che si comincia a esplorare l’idea di poter condividere qualcosa anche con chi è lontano o diverso da noi. L’idea che possiamo vivere un’esperienza trascendente al di fuori di noi stessi, superando anche uno dei problemi del nostro attuale concetto occidentale di empatia: per noi significa entrare nei panni di persone che condividono il nostro presente. Pensiamo molto meno all’empatia nel tempo.

E invece?
Invece dovremmo espandere le nostre emozioni anche in senso temporale. I miei figli oggi sono adolescenti; ma se penso all’anno di nascita di mia nonna e all’anno della morte di un mio ipotetico nipote, dopo una lunga vita che spero felice, tra l’uno e l’altro potrebbero passare due secoli. Fra me e questi duecento anni c’è un legame diretto: le persone che amo.

Siamo allacciati ad almeno cinque generazioni, alcune dietro, altre davanti a noi, il che ci rende profondamente connessi anche nel tempo. Ai politici, chiedo di provare a immaginare il momento in cui i loro figli o i loro nipotini avranno 90 anni. Siamo abituati a pensare che la nostra connessione emotiva si limiti alle persone che amiamo, ma con questo piccolo esercizio di immaginazione capiamo che preoccuparci di loro significa che la nostra responsabilità si estende fino ad abbracciare individui sconosciuti che vivranno nel futuro.

Da qui il titolo del suo libro Come essere un buon antenato?
È una metafora, in un certo senso; un modo per cercare un linguaggio che ci aiuti a connetterci al futuro. Se parliamo di generazioni future, sembra che indichiamo qualcosa di lontano da noi. Ma se dico che voglio essere un buon antenato, mi riferisco al modo in cui sarò giudicato da quelle generazioni. Cioè prendo in considerazione le conseguenze sociali delle mie decisioni attuali. A tradurlo in giapponese è stato un monaco buddista.

«Perché ti sei preso il disturbo di tradurre questo libro?» gli ho chiesto. «Perché noi, quando pensiamo agli antenati, guardiamo indietro e mai in avanti». Voleva tradurre l’idea che si potesse essere rispettosi delle generazioni future come di quelle passate. È una sfida difficile. Abbiamo sempre con noi i nostri smartphone, gli algoritmi cercano di tenerci nel momento presente...

L’arte, che permette di trascendere il presente, è un esercizio d’empatia?
Credo che l’ascesa del romanzo a partire dal XVIII secolo sia stata una svolta fondamentale nella storia dell’empatia. Non ne so abbastanza di letteratura italiana, ma nella tradizione letteraria inglese, autori come Dickens sono stati davvero importanti sotto questo aspetto.

Dickens nel XIX secolo mostrava cosa vuol dire essere un bambino povero in un ospizio, vivere per strada. I suoi romanzi hanno portato a vere e proprie riforme sociali. Arte e empatia sono in connessione stretta. Sul piano metodologico, il teatro – prima parlavamo del teatro greco, ora penso al metodo Stanislavskij che parte dall’immedesimazione – è molto legato all’empatia.

Cosa legge uno studioso di empatia?
Leggo molta fantascienza, e credo che abbia un legame con il discorso che stiamo facendo. La fantascienza è un viaggio emotivo nel futuro. Molti dei migliori scrittori di fantascienza conducono esperimenti filosofici con sistemi morali. Come Ursula K. Le Guin nel suo bellissimo I diseredati.

Ma lei legge la fantascienza contemporanea o quella del passato?
Leggo tutto. Quando la fantascienza ha iniziato a emergere, nel XIX secolo, Jules Verne e H.G. Wells stavano facendo qualcosa di importante: riconnetterci con un senso del tempo più esteso, che peraltro si è conservato in molte culture indigene.

Negli anni ’30 del secolo scorso uno scrittore piuttosto sconosciuto, Olaf Stapledon, ha iniziato a scrivere romanzi che non guardavano a cento o mille anni avanti, ma a milioni di anni avanti. Sono libri folli, che cercano di rompere la tirannia del qui e ora: una gran buona cosa.

Lei ha fondato un Museo dell’Empatia, diretto dall’artista Clare Patey. Il museo nasce a Londra nel 2015, ma è un progetto itinerante: è arrivato anche in Italia, a Milano e a Mestre.
Per me è bello vedere come si è diffuso. Una delle installazioni principali è una scatola da scarpe che ha fatto il giro del mondo. È una scatola-container: le persone entrano e scelgono un paio di scarpe. Ogni paio è abbinato a un podcast in cui il proprietario di quelle scarpe racconta la propria storia. È una sorta di immersione. Indossi i panni – le scarpe – di qualcuno mentre ascolti il racconto della sua vita con le sue parole: ti senti come se fossi dentro un’altra persona.

Il sistema sanitario britannico ha utilizzato le nostre installazioni per aiutare i medici a capire cosa significhi essere un’infermiera, un paziente o un addetto alle pulizie in ospedale. Abbiamo curato collezioni di storie sulla crisi climatica, sui rifugiati. È un’esperienza molto intensa, a volte divertente malgrado le storie siano dure, malgrado l’empatia possa essere dolorosa. Ma è anche il tentativo di provocare un cambiamento nel discorso pubblico.

Cosa risponderebbe a chi sostiene che l’empatia ci espone al rischio di una sopraffazione emotiva ai danni della razionalità?
Che esistono due tipi di empatia. L’empatia affettiva, che consiste nel condividere le emozioni di qualcuno. Ad esempio, se leggo l’angoscia sul volto di mio figlio, provo angoscia. Ma c’è un altro tipo di empatia: l’empatia cognitiva, o prospettica. Provare a mettersi nei panni di qualcun altro non significa affatto essere sopraffatti emotivamente. È un mezzo di conoscenza, che dovremmo estendere a tutti gli esseri viventi.

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