Chi scrive sa bene che davanti a un editore, soprattutto quando si tratta di idee future per libri futuri, deve necessariamente vendere una buona manciata di menzogne. I libri non esistono ancora, le trame sono vaghe, ma vengono impacchettate dagli scrittori/scrittrici come sicuri volumi di successo. La bravura di un editore sta nel capire se dietro a quelle trame, raccontate con iperboli meravigliose, si annida la possibilità di un capolavoro o c’è solo un desolato flop. E così è successo tra Leo Longanesi e Ennio Flaiano. Lo scrittore aveva messo sul tavolo una storia fantastica ambientata nell’Africa di Erodoto e Solino, e l’editore, da buon imprenditore che annusa un affare, disse solo: «Se comincia subito le do un anticipo». Quella conversazione avvenuta in un freddo inverno del secondo dopoguerra produsse uno dei più grandi romanzi italiani e l’unico scritto da Flaiano, che invece avrebbe poi intrattenuto una storia d’amore con la forma breve. Tempo di Uccidere ha un titolo evocativo, all’epoca anche criticato, ma che centra il bersaglio come pochi altri. Lo spazio coloniale, perché di colonia parla il romanzo, è uno spazio gerarchico, dove chi entra da padrone comanda e chi si ritrova nei panni del suddito viene disumanizzato, e quindi ucciso nella sua essenza oltre che nel suo corpo fisico. In realtà Flaiano nel primo dattiloscritto aveva intitolato il futuro romanzo Il coccodrillo, un animale che entra con tutto il suo simbolismo nella trama, ma è ancora una volta Leo Longanesi a intervenire. Nel catalogo aveva già un elefante e un cameleonte, e non era il caso, disse con garbo pungente, trasformare il catalogo Longanesi in un giardino zoologico. E così, con l’esergo tratto dall’Ecclesiaste, «tempo di uccidere e tempo di sanare, tempo di...» il romanzo decollò nel mondo delle belle lettere e fruttò all’autore duecentomila lire del primo premio Strega.

Contro il neorealismo

Era un romanzo particolare per i tempi. In primo luogo parlava di un uomo senza nome, un militare, che non era un eroe. Un uomo confuso, con il mal di denti, preoccupato della sua ombra, che vaga senza meta in quell’Africa orientale italiana conquistata. Un uomo che costringe una donna del luogo, Mariam, a un rapporto sessuale, donna che poi uccide (dice lui) per sbaglio. Un uomo tormentato dalla paura di essere intrappolato in un paese che non è l’Africa promessa dalla propaganda fascista delle faccette nere e dell’eldorado a portata di mano. L’antieroe di Flaiano è pieno di difetti, pieno di pensieri. Quasi non c’è trama nel libro, seguiamo il suo vagare nel desolato panorama giallo del’Africa orientale che Flaiano definisce nel libro «lo sgabuzzino delle porcherie», il luogo dove l’occidente ha perso l’anima, mostrando di essere barbara e incivile. E naturalmente lo seguiamo anche nei suoi pensieri contorti, nell’attraversare i dilemmi di una mente alterata. Nel libro Flaiano, che in quell’Africa violentata dagli italiani c’è stato e ha scritto una specie di diario, Aethiopia. Appunti per una canzonetta, sublima la sua esperienza personale. Ma c’è molto di più. Con una prosa onirica esplora il dubbio e la rimozione dei delitti che si stanno compiendo. Per questo molte persone come me, figlie di quelle terre colonizzate dall’Italia, hanno trovato in questo romanzo il racconto di chi quella guerra l’ha fatta da invasore, uccidendo e non pagando per i crimini commessi. Ho sempre trovato il libro di Flaiano un libro coraggioso, per la sincerità estrema del suo protagonista, sempre in bilico tra pazzia e crudeltà, ma coraggioso anche perché in un momento in cui spuntavano come funghi romanzi neorealisti ha scelto di raccontare in forma allucinatoria una guerra scomoda, quella contro l’Etiopia. Era un momento in cui tutti gli italiani (anche parecchi antifascisti) erano orgogliosi di quell’impero e in fondo contenti del regime. Infatti quando Mussolini, il 9 Maggio del 1936, dal balcone di Piazza Venezia annuncia che l’impero riappare sui «colli fatali» di Roma, il suo consenso era altissimo, il paese era allineato con il fascismo. Ricordare quell’Etiopia nel 1947 non piaceva a nessuno. Nessuno voleva ricordare di essere stato fascista. Per questo il libro di Flaiano è importante: ha voluto guardare in faccia l’ambiguità degli italiani. Nel tempo sono stati in pochi a farlo.

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