L’altra sera mi è capitato un incidente. La tv era accesa sul canale 100, quello di Sky Tg24. Parlava il ministro degli Esteri Di Maio. Ciò mi ha causato come sempre uno spasmo involontario in zona lombare-escretiva, spasmo che si è trasmesso poi ai glutei che hanno a loro volta schiacciato il telecomando che come sempre si era andato a rintanare lì sotto e così la tv è andata sul canale 101. Raiuno. La tv generalista. La paura. Non ricordo cosa ci fosse in onda, ma per uno stimolo condizionato non ancora sopito dalla rivoluzione digitale, ho schiacciato il tasto sbagliato e sono finito su Raidue. A quel punto, ormai in stato di incoscienza, ho iniziato a “scanalare”. E sono arrivato su Canale 5. 

Lì, sul cinque, c’è il primo piano di una donna che lamenta con un marcato accento romanesco, la pochezza morale del suo uomo. La situazione è piuttosto strana; c’è la conduttrice, la nota Alessia Marcuzzi, che in abiti incongruamente castigati e dunque stranianti vista la situazione, parla con quattro signore sedute su alcuni tronchi (davvero, giuro, l’ho visto con i miei occhi) con vestiti da sera scollati, davanti a un falò. Wow. La tv! Me l’ero quasi scordata. Non riesco a divagare a causa dell’incredibile sforzo empatico della conduttrice, che mi trattiene a sé.

Ella, anche grazie a una certa scandinava durezza dei lineamenti, sobriamente sottolineati da un trucco invisibile e dall’abbigliamento monacale se confrontato col profluvio di tette a colori sgargianti delle sue ospiti, sembra una psichiatra di una clinica nordica per nevrotici di classe, tanta è la differenza rispetto alla signora sul tronco. Signora sul tronco che ora, inquadrata in un drammaticissimo, intensissimo, irresistibilissimo primissimo piano, guarda da un mini pc frammenti di video del suo fidanzato che flirta con una donna non meglio identificata. Di quest’ultima infatti si vede solo il posteriore, anche in scene diverse, il viso non si vede mai. Al culo della donna misteriosa il fidanzato confida in mondovisione le “problematiche” relative al rapporto con la sua fidanzata (la signora sul tronco), che quindi riceve per interposto montaggio televisivo i messaggi del compagno. Il tutto sottotitolato a carattere cubitali. La mia schiena cerca il conforto del fondo del divano. Mi adagio, ma solo per un attimo, mi dico. E invece.

Tentazione e martirio

Niente di nuovo, se spegni la tv e la riaccendi 10 anni dopo, non aspettarti delle novità. Questo il primo pensiero, anch’esso riflesso condizionato dalla lunga esperienza. Senza rendermene conto ero ormai pronto a sistemarmi in posizione da “ascolto attento” e depositato il telecomando lontano dalle chiappe (segno inconscio che la mia attenzione era catturata, che stavo approfittando del biglietto omaggio per lo zoo) mi disponevo a imparare. Il video finisce. La conduttrice con espressione ancora più contrita di prima, così contrita che sta per sfondare il muro del suono della contrizione e dell’aggrottamento della fronte, dall’alto della sua camicetta allacciata fino all’ultimo bottone, le chiede se e quanto stia soffrendo. Lei sta soffrendo. Lei sta soffrendo tanto.

Il fidanzato in effetti sembra proprio un coglione – tutto preso dalle strategie di seduzione da gita scolastica che, come da istruzioni dell’autore, ella, la single aizzatrice, vi spiego a breve di cosa si tratta esattamente, mette in pratica. Si tratta del campionario completo: mild flirting, battute allusive ma molto caste e soprattutto grattini. I grattini! Ovunque: sulla testa, tra i capelli ossigenati del povero bifolco, sui piedini santi di lei, il solletico, i ghirigori sulla schiena guardando il cielo stellato e parlando di un cazzo di niente tra incomprensibili sbotti di risa trattenuti per l’imbarazzo. Età percepita: quindici anni. Età reale: oltre i trenta. Ah, la risacca dei millennials, che grande bellezza. Torniamo a lei, l’aizzatrice. Lei recita e si vede benissimo. Lui no. Lui è nel mondo reale (il suo); non mostra alcun segno di ironia. Insomma, è totalmente succube della maldestra tecnica arrizzacazzi dell’inviata tentatrice, come un sedicenne – oooops, scusate, volevo dire quindicenne. Vergine. Il tutto, ripeto, molto pudico, al limite del catechismo; mele proibite, tentazioni, martirio.

L’ornitorinco televisivo

Tutto, in quello che vedo, rimanda in realtà a un universo puro e innocente, addirittura casto, nonostante le apparenze. C’è più sesso, sensualità e perversione in trenta secondi della serie Euphoria che in mezz’ora del programma più pruriginoso della tv italiana. E così mi avvio consapevole verso la tentazione (quella sì, pericolosa) di iniziare a pensare al significato di quanto stavo vedendo, il cui esito state ahivoi leggendo qui. E per far ciò, occorre riassumere i termini del contratto, per quelli che come me non hanno idea di cosa sia questo programma televisivo. Sarò breve, esercizio difficile, dacché le cose stupide son difficili da semplificare. Ad ogni modo, il sunto è questo: tu vai a Temptation island (si chiama così; in italiano: L’isola della tentazione, wow) se non sei sicuro del tuo rapporto; lo fai per metterlo alla prova, per superare una crisi, per sapere se dopo undici anni insieme, lui (o lei, ma le coppie sono tutte etero, non so in passato) è quello giusto per te. Questo però soprattutto per le signore.

I maschietti invece ci vanno solo e soltanto per narcisismo primario. E perché sono schiavi della figa. Infatti il colpo di genio del già diabolico meccanismo del programma e a conti fatti l’idea che deve aver fatto urlare gli eureka nelle sale levigate degli ideatori olandesi del format originale, è che i fidanzati vengono separati per sesso (fidanzate di qua, fidanzati di là) e sopra ognuno dei due gruppi ci spruzzano un tot di single che stanno lì apposta a “tentare” gli accoppiati, con copioni degni del camp dei boy-scout e purtroppo molto sotto il camp come concetto e non più nemmeno definibili come trash. Praticamente un ornitorinco televisivo.

Della indubbia superiorità femminile

Un esito essenziale sta quindi nella gigantesca differenza che si ravvisa nel comportamento delle donne rispetto agli uomini. Seppur altrettanto poco attrezzate dal punto di vista delle capacità intellettive, le donne hanno piani, progetti, usano per quel che possono questo trappolone per riflettere e cercare di capire qualcosa di più di quei mascalzoni da quattro soldi ai quali si sono malauguratamente accoppiate.

I maschi invece no, schiavi della loro semplice idraulica non sembrano avere gli strumenti, piuttosto basici in verità, per uscire dal ping-pong gelosia-libidine. Loro, i maschi, categoria alla quale appartengo, non posso negarlo, alternano incazzature violente (di solito sfasciano oggetti dopo aver sentito la fidanzata parlare di loro) a evidentissime sindromi sdilinquenti da erezione prolungata e insoddisfatta, in attesa di una eiaculazione che in tutta probabilità non avverrà mai e se avverrà poco importa, sarà stato nel cachet della tentatrice. Prova ne sia che quando sono gli uomini a guardare i video delle fidanzate sorridono trionfanti della loro pochezza. Come un bambino che si vanta di avere una macchia di piscio sui pantaloni.

Le signore no. Sembrano (oddio) autentiche. E posseggono, cosa resa estremamente evidente dal contesto ultracattolico dello show, la dote del perdono, dote fondante della superiorità femminile e elemento chiave del dono che noi maschi riceviamo quotidianamente e al quale spesso non prestiamo attenzione. Mi torna in mente il lungo discorso su questo tema di un amico caro, quasi mio coetaneo, siciliano ma ben inserito nel tessuto produttivo creativo milanese nonché dotato di una invidiabile sensibilità e raffinatezza intellettuale. Una sera mi parlò dell’incapacità del maschio di apprezzare il perdono, la lungimiranza, la pazienza (non quella che serve per ricamare, quella che serve per guardare oltre l’immediato) della quale le donne, tutte, ci fanno dono e del quale noi, i maschi, non facciamo tesoro. Anzi. In un istante doloroso penso a quanto questa capacità di esercitare la grazia del perdono abbia condannato molte, troppe donne (una è già troppo; lo devo dire o è, almeno a un qualche livello, una verità in purezza?) a subire violenze; non solo quelle spettacolarmente esecrabili e odiose che arrivano alla cronaca, ma la violenza intrinseca alla posizione di colui che sente di avere diritto al perdono, qualsiasi cosa faccia. Mi sento già una merda, e sono passati si e no dieci minuti. La TV generalista fa male. Domani chiamo l’analista, mi sto perdendo.

E tuttavia rimango a guardare, come direbbe un Battiato malamente contraffatto, rimango a guardare per un motivo preciso, che mi fa schifo ma che non posso ignorare. Mi faccio beffe di loro, mi sento superiore, nonostante lo sprazzo di lucidità di cui sopra sulla superiorità femminile, so, sento, che in tutto e per tutto, sono superiore alle sopracciglia spinzettate del tale napoletano, alla parlata dialettale che non arriva a essere volgare (sarebbe bella, se davvero volgare), agli anacoluti in sequenza, alla paralogia come arma di distruzione di un rapporto sentimentale. Questi non leggono libri, non vanno al cinema, non sanno chi è Greta e molto probabilmente non sono in grado di praticare un cunnilingus decente. Io. Sono. Superiore.

Ma ora beviamoci una PEPSI!

Erase and rewind: l’inizio dell’epoca dell’intrattenimento volto a far sentire superiore chi guarda mi piace farlo risalire a uno spot della Pepsi degli anni Novanta. Ne aveva parlato David Foster Wallace. Quello celebre – lo ricorderete – nel quale il protagonista si addormenta al sole in spiaggia, si sveglia bruciacchiato e assetato, vede un chiringuito della Pepsi a mezzo miglio, salta sulla sabbia infuocata e quando lo raggiunge scopre che le Pepsi sono finite. Le stanno bevendo tutti eccetto che lui, col quale ci identifichiamo, ma solo per un istante, perché in un attimo non siamo più lui – e in ciò sta la rivoluzione di quello spot – ma siamo le mille persone che lo guardano e lo deridono perché loro stanno invece sorseggiando una Pepsi ghiacciata, con grande soddisfazione. L’eroe della pubblicità è un poveraccio e noi non vorremmo essere lui, vorremmo essere gli altri. Anzi, noi siamo gli altri. Noi siamo l’altro, sempre superiori a quel che vediamo, sempre migliori, non uguali, migliori. E perché mai dovremmo stare a guardare gente migliore di noi che ci farebbe sentire una merda? Si va avanti così da decenni ormai, il succo è questo, mi pare chiaro.

Gli altri sono peggio di me

Questo tipo di contenuti ci invitano a pensare che noi siamo gli altri, diversi, migliori. Siamo sempre gli altri rispetto a qualcun altro, ovvio, ma siamo altri in senso ontologico, ovvero siamo altro e non possiamo non essere altro. Siamo proprio cose diverse, meglio, incommensurabili, insolubili, acqua e olio. Non siamo in comunicazione, tant’è che noi siamo sul divano e loro intorno al falò. E non ci sfiora il dubbio che il nostro partner si farebbe fare dei grattini, perché non c’è empatia o immedesimazione, ma solo derisione nell’occhio di chi guarda, derisione resa inevitabile dalla serietà e dall’abbigliamento da catechesi della conduttrice, che così facendo svela il gioco e ci allontana da loro avvicinandoci al programma.

Non guardiamo mai loro, i tentati, gli sfigati; noi guardiamo il programma, la cornice avvilente nella quale si sono confinati per il nostro ludibrio. E sta proprio nella impossibilità di essere gli altri, o per lo meno di sentirci gli altri, l’importanza nefasta di quello che vedo. È un meccanismo pervasivo; è alla base della polarizzazione del dibattito politico, della incapacità di reggere agli urti barbari del razzismo, dell’omofobia, che urlano dalle viscere che noi siamo altri, diversi, infine superiori e con gli altri non abbiamo alcun rapporto. Ed è in questo il crimine perpetrato, incredibilmente ancora oggi, nel duemilaeventi, da questo tipo di contenuti. Queste persone, i poveracci che si offrono, chi sono? Forse lo fanno addirittura gratuitamente, chissà, mi viene da vomitare alla prima ricerca di Google sul format, abbandono subito. Costretti a mutarsi in panda in calore e come loro languidamente impotenti, sono sicuramente migliori di come appaiono, anche i patetici maschi. Ne sono certo. Ma ci è impossibile vederli, non ci sono, sono il metabolita del format, ruminato, dissanguato e risputato fuori per il nostro divertimento. Tutto ciò ci distanzia. Elimina la possibilità dell’empatia. Riduce gli innocenti interpreti a cavie torturate loro malgrado, perché essi non sanno quello che fanno, verrebbe da dire, poveri cristi, vittime e carnefici di loro stessi. E soprattutto non sono quello che fanno.  Andrebbero salvati, occorrerebbe irrompere in questo luogo dissanguato, tappezzato orizzontalmente da metri e metri di erba finta, illuminato ventiquattrore al giorno da luci bianche e fredde che mi ricordano i documentari su Guantanamo, e spaccare tutto. Farsi esplodere. Sì! Perché io sono come loro e detesto non riuscire a sentirlo, detesto sentirmi superiore, detesto spegnere la tv, guardare rassicurato alla mia biblioteca, rimettere in rodine i provatissimi cuscini del divano e andare a dormire con sotto braccio un librone intelligentone.

Perché io sono come loro, forse a differenza loro me ne rendo conto e ci lavoro, ma solo perché ho avuto culo. Per questo li odio.

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