La Terra vista dalla luna è il titolo del mediometraggio che Pier Paolo Pasolini girò per Le Streghe, film a episodi prodotto nel 1967 da Dino De Laurentiis: cinque registi, una protagonista ricorrente, Silvana Mangano, che in ogni storia interpreta una strega diversa.

In quella di Pasolini, più che a una strega somiglia a una fata: e a una fata molto nota, che già allora da parecchi anni abitava il regno dell’immaginazione infantile e, passata per varie metamorfosi, fino a oggi non l’ha più abbandonato: la Bambina dai capelli turchini, che redime Pinocchio e gli apre l’accesso alla vita, la vita vagheggiata di bambino in carne e ossa, benché nella fiaba di Collodi la sua apparizione sia apparecchiata fra segnali di cupezza crepuscolare – dapprima è una Bella Bambina che parla da una casa di morti, poi ricompare in forma di donna e gioca con l’ambivalenza del desiderio del burattino, di avere una mamma anche lui.

Nella fiaba di Pasolini Silvana Mangano si chiama Assurdina Cai, e i capelli li ha un po’ biondi e un po’ verdi. È sordomuta, e incontra il fresco vedovo Ciancicato Miao, un Totò effettivamente stropicciato, e suo figlio Basciù (Ninetto Davoli), in un turbine di avventure in cui alle parole, per forza di cose, devono sostituirsi i gesti: per magia sistema la catapecchia in cui i due vivono la loro vita scalcagnata, e si presta a una loro trama demenziale per racimolare qualche soldo in più.

Solo che le cose non vanno secondo i piani, lei muore e padre e figlio tornano alla loro disperazione: finché Assurdina non riappare, come niente fosse, radiosa nella casa che ha rimesso in sesto, e il film si chiude con una didascalia rossa su fondo giallo: Morale: essere morti o essere vivi è la stessa cosa. Pasolini in un’intervista racconterà poi di aver voluto mostrare, con questa fiaba poetica e stralunata, come la più pura vitalità della commedia picaresca mascheri la presenza profonda della morte; e in effetti il mediometraggio lascia un’impressione curiosa di disorientamento, come se durante la visione le certezze più sicure e più intuitive si fossero per un istante ribaltate, mostrando una faccia nascosta come la faccia in ombra della luna.

D’altronde sappiamo benissimo che, per quel che concerne i confini della nostra esperienza ordinaria, essere morti o essere vivi non è affatto la stessa cosa: ma che succederebbe se alle nostre esistenze, ai nostri dolori minuscoli o immensi, guardassimo da lontano, come suggerisce il titolo che entra in cortocircuito con la morale apparentemente giocosa del film? Se la Terra la vedessimo dalla luna, riusciremmo a guardarla con occhi nuovi, ad accettare la crudezza di quello che non riusciamo a sopportare? Sapremmo, attraverso il paradosso della distanza, incontrarci davvero con un’alterità che tendiamo, finché possiamo, a tenere a distanza, a ignorare nei suoi tratti più vulnerabili?

Vidas, che da oltre quarant’anni offre assistenza gratuita ai malati che non possono guarire e a chi condivide con loro il destino di un presente sospeso, ha organizzato al teatro Franco Parenti di Milano il festival Incontro. Tema di questa edizione è viveremorire: un tentativo di rispondere proprio a queste domande intrecciando voci che arrivano da mondi e esperienze diverse, per mettere in parole quello che consideriamo un tabù, un indicibile dettaglio periferico dell’esperienza della vita, e che invece, in quanto limite, le dà forma: la condizione di viventi, che ci espone all’ipotesi sicura della morte, ma ci apre anche alla possibilità di meditare la nostra natura mortale, di pensarla, di guardarla. Magari con l’aiuto della distanza, che possa fare da filtro all’umanissimo sgomento che ci impone.

Umberto Guidoni, che è stato il primo astronauta europeo a visitare la Stazione spaziale internazionale, la Terra l’ha vista molte volte «dal di fuori», come dice lui, a partire dal suo primo volo nello spazio a metà anni Novanta. Sa bene cosa significa, guardarla da una stazione spaziale che dista «quanto Roma da Bologna», più o meno – orbita a 400 km di altezza – ma non permette di scorgere traccia dell’umanità, se non nei contatti radio: da lassù non si vedono strade, città, persone. I corpi scompaiono, rimane solo la possibilità della comunicazione disincarnata, con tempi di risposta dilatati dalla lontananza.

Ma lei se lo ricorda, cos’ha provato la prima volta che hai visto la Terra dallo spazio, e cosa prova quando torna a vederla da quella prospettiva?
La Terra esercita un fascino quasi ipnotico, con paesaggi che cambiano continuamente mentre si compie un’orbita in circa novanta minuti, il tempo di una partita di calcio. Sono immagini da capogiro, con panorami su una scala mai vista. Volando sul Mediterraneo, si può cogliere il giallo ocra del Sahara interrotto solo dalla gigantesca cicatrice tracciata dal corso del Nilo. Allo stesso tempo, si può ammirare lo stivale della nostra penisola circondata da splendide acque turchesi. Dopo qualche minuto il bacino del Mediterraneo svanisce dalla vista, così come i luoghi che hanno visto l’emergere e il dissolversi di grandi civiltà. In un batter di ciglia, passano davanti agli occhi millenni di storia!

L’aiuola che ci fa tanto feroci, come Dante la immagina vista non dalla luna ma dal limitare dell’Empireo, che effetto fa, quando poi ci si rimette piede?
Tutti gli astronauti chiamano la Terra il “pianeta azzurro”, sottolineando come da lassù non si vedano i confini stabiliti dagli uomini. Durante i miei viaggi nello spazio, ho provato le stesse emozioni e ho sentito di appartenere non più soltanto a un paese o a un continente, ma all’intera specie umana. Quando si torna, rimane il ricordo di un mondo bellissimo ma anche molto fragile, un’oasi colorata circondata da un oceano di buio.

A segnalare il confine della nostra esistenza umana, se lo spazio lo possiamo, come lei ci mostra, trascendere, rimane però il tempo: come cambia, lasciando la Terra, la sua percezione?
Nello spazio si entra in una dimensione completamente nuova, si può fluttuare senza peso con una libertà di movimento mai provata prima. Alto e basso non hanno più significato, e anche il tempo appare cambiato. Nell’arco delle 24 ore, il sole sorge e tramonta 16 volte e sembra di vivere in un film accelerato. Ben presto si impara a ignorare cosa avviene fuori e si usa il normale tempo terrestre per tutte le attività a bordo.

E nelle comunicazioni con le persone che fanno parte della vita di un astronauta, cosa succede?
Durante il primo volo, nel 1996, ho potuto parlare con la mia famiglia solo una volta, attraverso la radio del centro di controllo di Houston. Tutti potevano ascoltare anche se noi parlavamo in italiano. Nella seconda missione, grazie all’introduzione di Internet, abbiamo potuto comunicare anche via email.

Una curiosità che finalmente ho occasione di soddisfare: come si sogna, nello spazio? E quando si torna indietro, i sogni cambiano?
Non rammento di aver sognato nello spazio, forse ero troppo impegnato per ricordarlo. Ho avuto, invece, sogni molto vividi nei primi giorni dopo il mio ritorno sulla Terra. In genere erano legati alla possibilità di volare tra gli alberi, oppure di fluttuare senza peso fuori dal letto come facevo sullo Space Shuttle.

Lei è stato un pioniere dei viaggi spaziali. Come vede, oggi, il futuro degli astronauti? Cambierà, nei prossimi decenni, il nostro rapporto con lo spazio?
Per la mia generazione, lo spazio è stato un sogno quasi impossibile e solo poche centinaia di persone hanno potuto volare oltre l’atmosfera terrestre e ammirare il nostro bellissimo pianeta. Mezzo secolo dopo, l’esplorazione spaziale sta vivendo un nuovo sviluppo anche grazie al contributo delle compagnie private. Lo spazio potrebbe diventare un luogo dove vivere e lavorare e magari passare un weekend letteralmente “fuori del mondo”. Spesso incontro studenti, anche giovanissimi, e penso che tra loro potrebbero esserci i protagonisti delle future missioni verso la Luna e Marte.


Chissà. Certo è vertiginoso immaginare attraverso le parole di un astronauta l’inverarsi della conoscenza intuitiva che Spinoza, per via tutta teorica, aveva preconizzato nella sua Etica: quella forma di comprensione per cui ogni singola cosa, ogni fenomeno isolato, è conoscibile, e noto, nella sua relazione con una rete causale vastissima. In cui i dettagli illuminano l’intero, e l’intero i dettagli.

E la Terra vista dal di fuori, nello spalancarsi dello spazio, ridà valore alla possibilità di osservare le cose al microscopico. Perché, come racconta con ammirevole semplicità Umberto Guidoni, la possibilità di vedere il pianeta da fuori, e da lontano, paradossalmente ci avvicina di più alla Terra. Anche solo per guardarla così, con occhi che sentono rinsaldarsi il senso di essere umani, sarebbe valsa la pena di arrivare nello spazio.

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