«Ci spiace, la tua abitazione non è raggiunta dal servizio». Da sette anni, vale a dire da quando ho lasciato la città per dare retta a ministri e associazioni di categoria che invocano il ripopolamento delle splendide aree rurali d’Italia abbandonate dalle generazioni del passato in fuga dalla campagna, è uno stillicidio.

Ricevo con regolarità sconfortante una serie di mail pubblicitarie che mi invitano a entrare, agilmente e a prezzi super scontati, nel magico mondo della fibra ultraveloce. Tim, Fastweb, WindTre, Tiscali, Vodafone. Ora si è aggiunta pure SkyWifi. Il fatto è che nessuno supera lo scoglio del fatale «clicca e verifica se la zona è coperta». Perché una volta capito dove vivo – che non è un faggio in cima all’eremo delle Carceri, ma un paese che confina con la capitale del vino, del tartufo e della crema al cioccolato, già arretrato nei trasporti per una serie di vicissitudini politiche vergognose – non c’è operatore, offerta a tempo o proposta imbattibile che non si arrendano e battano penosamente in ritirata.

Vittime della loro arroganza commerciale ma, soprattutto, di una rete oscura di inefficienze e rimpalli di responsabilità tra pubblico e privato; di scelte tragiche di politica economica, della mania di annunciare la cattura dell’orso quando ancora manca il patentino per la caccia e, mi sa, di tanta gente sbagliata nei posti sbagliati. In due parole, dell’Italia.

Uno di questi operatori – per carità patria non verrà nominato – ebbe il coraggio di propormi un’alternativa all’autostrada digitale che dalle mie parti, tra Langhe e Roero, somiglia a quella di asfalto che termina disgraziatamente a metà di un campo di grano: una connessione col doppino in rame.

Lo sventurato accettò

E io, per conto mio, la altrettanto sventurata idea di accettare. Doppino in rame significa che a un povero ragazzo di una ditta appaltatrice, in una giornata di canicola agostana, toccò srotolare qualcosa come settanta metri di cavo, lungo due terreni non miei; chiedere il permesso di appenderlo al palo di un vicino di casa – un contadino sulla settantina, già sul chi va là e pronto a difendere la proprietà col Remington – e, dopo 12 ore di fatiche abnormi, offrirmi una favolosa connessione a 0,8 megabit al secondo.

Non riuscivo neanche a vedere l’immagine di anteprima dei video di YouTube e il browser, ogni tanto, mi poneva domande pietose e arcaiche quali «vuoi passare alla versione solo testo?», che pensavo si fossero estinte intorno all’anno 2000. Io e l’operatore improvvido divorziammo dopo un mese, alla Sacra Rota del Corecom. Erano talmente in difetto (internet a velocità preistorica, ma fornita a prezzo modernissimo) che si arresero senza lottare. Solo che a me rimasero quella minuscola soddisfazione e il ben più voluminoso problema di vivere nel più pieno, frustrante, odiosissimo digital divide.

Mi ero ridotto a parcheggiare in città, sotto casa dei miei genitori, col pc o il tablet sulle gambe. Per scaricare quel po’ di cose che potessero dare a me e famiglia un minimo di sollievo serale: puntate di serie televisive, film e cartoni animati per loro, Un giorno in pretura per me.

A corto di soluzioni, bombardato da una campagna promozionale martellante, chiamai l’azienda che offriva connettività a chi viveva in zone digitalmente sfortunate. Il tecnico che avrebbe dovuto installare la padella, già mettendo piede in cortile col naso all’insù verso il mio tetto, commentò con un grugnito. Non era un buon segno. Il tempo di salire e scendere dalla scala, e mi vidi fare ante litteram il gesto che ha reso biecamente famosa la casalinga di Mondello, quella del «Qui non ce n’è, coviddi». No connessione, qui. E perché, di grazia? «Hai una collina proprio davanti a te, che blocca la trasmissione. Se conosci il sindaco e riesci a farla spianare». Ma come, non era internet via satellite? Senza barriere, senza limiti? Non funzionava pure sul Nanga Parbat? «Mi spiace», gli sentii dire mentre innestava la prima e spariva dietro una nuvola di polvere, in fondo alla strada.

Intorno al 2015, però, pensavo che il mio momento fosse davvero arrivato. L’allora presidente del Consiglio, Matteo Renzi, era ospite nell’incantevole reggia di Venaria reale, per il cosiddetto Digital day; e giacché scrivevo per l’ex giornale del suo ex partito, venni spedito a seguirlo.

L’illusione di Renzi

Stava per scoccare il trentesimo anniversario dell’ingresso di internet nel territorio nazionale e Renzi fu schietto: l’Italia deve diventare digitale entro il 2020. Banda non larga, ma ultralarga per tutti. Siamo un popolo, spiegava giustamente, fatto di gente che vive molto più di altri nei piccoli centri abitati. Mi sarei alzato in piedi ad applaudire. E allora serve un’accelerazione statale perché la fibra ottica arrivi presto dappertutto, anche laddove alle aziende conviene meno investire. Lieve tachicardia, visione della luce in fondo alla galleria.

Mi figurai un test di connessione a velocità siderali, la televisione smart e la lavatrice finalmente connesse, la caldaia col wifi che mi chiedeva, con una notifica sul telefono, il permesso di avviare il ciclo antilegionella. La videosorveglianza, anche se in paese la più seria minaccia alla sicurezza erano i cinghiali e i caprioli affamati, le videoconferenze in ultra Hd. Insomma, ci credetti.

Sentii parlare, per la prima volta, di Open Fiber, la società che si sarebbe occupata di risolvere i problemi delle «aree a fallimento di mercato», e mi precipitai a segnalare il mio interesse. Scoprii di vivere in un «cluster D» che, tradotto in linguaggio da strada, sta per zona altamente sfigata. Passò il 2016, poi il 2017. Nel mentre, passò anche il governo Renzi. Poi il 2018. Ho ancora la mail che certifica la «presa in carico della mia richiesta». Il loro ultimo cenno di vita, a inizio 2019: «Ciao Federico, il tuo comune sarà interessato dalla nostra copertura tramite i bandi Infratel». Sarà.

Banda minima garantita

A corto di soluzioni e di speranze, contattai un operatore locale. Arrivò un capellone col chiodo di pelle nera e gli stivali, che calpestò buona parte del mio orto in pendenza per calcolare triangolazioni di ponti radio, mentre ascoltava le mie lamentele per anni di delusioni, download falliti, videochiamate abortite. Poi si illuminò e disse sì, si può fare. Sei coperto dal servizio.

Felice come una Pasqua, avrei firmato il contratto anche seduta stante, con il gambo di un sedano. Ebbi l’inconsapevole buon senso di non cedere all’entusiasmo: le reminiscenze giuridiche mi suggerirono di leggere le clausole scritte in corpo quattro. La connessione costava uno sproposito, tra attivazioni e manutenzione; tra le voci di costo, compariva pure una sospetta penale – molto alta – per la risoluzione anticipata del contratto. Il prezzo era di tre, quattro volte superiore a un normale contratto per la fibra in un centro urbano cablato. Ma soprattutto le prestazioni, già scarsucce, non erano garantite: la loro formula recava la classica locuzione «fino a 10 mega in download». Fino a: anche 0,001 megabit è «fino a».

La banda minima garantita, difatti, era intorno a quella della famosa connessione col cavo, quella del fucile spianato dal vicino sospettoso. La loro pagina su Facebook, ancorché depurata da qualche recensione inaffidabile perché eccessivamente rabbiosa, pullulava di segnalazioni. Di giorno tutto bene o quasi ma alla sera, cioè quando tutti sono a casa a usare la connessione, le velocità precipitavano. Quando il metallaro mi richiamò per siglare il contratto, gli dissi sbrigativamente che ci avrei pensato, lui capì che non ci saremmo più sentiti.

Santa antenna

Anno 2020: se non ho ancora venduto la cascina, è perché un operatore telefonico mobile ha installato un’antenna poco lontano. Mica per pietà: serve a garantire la copertura telefonica cellulare di due o tre comuni confinanti. Involontariamente, però, mi ha fornito una ciambella di salvataggio. L’operatore ha una società secondaria, che vende schede sim a basso costo. Con 12 euro, si hanno 100 giga al mese. Se mio figlio li esaurisce in una settimana di puntate dei Paw Patrol su YouTube, ricarico e riparto.

Per darmi una parvenza di contemporaneità, ho esteso la rete wifi a tutta la casa e, grazie all’antenna, ora posso dire di avere una connessione paragonabile a una discreta fibra. In compenso sono dovuto diventare, mio malgrado, esperto di telecomunicazioni. Quando arriva un acquazzone, so già che la mia saponetta 4G perderà il segnale, si connetterà a un’antenna più lontana e io tornerò a un penoso 3G.

Credo che i tecnici di quell’azienda abbiano una mia fotografia mitragliata di spilloni: a ogni perturbazione seria, sanno già che sta per arrivare il mio report fatto di schermate di una app tecnica che misura quantità e qualità del segnale: Tac-Eci, eNB-Lcid, insieme a una serie di risposte a domande che per prassi mi devono comunque fare: sì, ho già provato a connettermi fuori dalle mura domestiche. Sì, ho già provato a inserire la Sim in un altro apparecchio, e non va. Sì, ho una seconda Sim che ha gli stessi problemi. Sì, ho spento e riacceso più volte il device e non ho risolto.

Metano vince su rame

La scorsa primavera, nel mio paesiello è arrivato il metano. Fino al 2019 qualcuno si scaldava a legna, altri con il gas liquido. Sospetto che il vicino col fucile usasse anche qualcosa di vietatissimo, a giudicare dal colore del fumo che spuntava dal comignolo. Durante lo scavo, con la benna mordente un operaio ha tranciato di netto il cavo telefonico steso dall’operatore improvvido, quello che il vicino voleva passare per le armi. L’ho scoperto giorni fa, per caso.

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