Il calcio nel pieno della sua mutazione genetica. Ogni partita di questi lungi mesi post lockdown sembra un esperimento anti Covid condotto con altri mezzi, l’azione di adattamento a una realtà inafferrabile condotto dentro una bolla policentrica. Stiamo tutti bene? Noi spettatori non sapremmo rispondere, e quanto ai nostri eroi meglio soprassedere. Magari vi diranno che dentro la bolla si vive un’alienazione al quadrato, costretti a fare i sani e performanti ma esponendosi a contatti e assembramenti da rischio assoluto. E poiché nessuna sperimentazione mette al riparo da effetti collaterali e crisi di rigetto ecco servito l’effetto di un calcio mutante, che propone punteggi esagerati al termine di gare dall’andamento schizofrenico, ma giocate dentro il vuoto pneumatico degli spalti deserti. E per i tifosi costretti a vivere una passione da remoto è tutto un senso di frastornamento. Non sanno nemmeno se tocchi loro adeguarsi, poiché pensano e sperano sia soltanto una parentesi ma intanto temono che la mutazione si stia strutturando. Per adesso registrano le valanghe di gol, tante e tali da far pensare che il calcio non sia più lui. E riguardo a quest’ultimo punto è stata avanzata, due settimane fa, un’affascinante tesi sul sito della Bbc Sport: e se le goleade fossero effetto dell’assenza di pubblico negli stadi e dell’allentamento di tensione che ne deriva?

Il contesto

«La tesi avanzata dalla Bbc è plausibile – dice Salvatore Sica, psicologo esperto in psicologia dello sport – perché chiama in causa il concetto di contesto. Faccio un esempio: se una squadra di pallavolo è abituata ad allenarsi in una palestra piccola, anche se regolamentare, quando poi si trova a giocare in un palazzetto di grandi dimensioni vede completamente sfalsare i meccanismi dell’adattamento. Stenta a fare le cose che fa normalmente. E questo vale per tutti gli sport, perché dal contesto si impara. Il contesto è fatto di luoghi, suoni, immagini e di tutto ciò che determina la percezione umana. Per questo la mancanza del pubblico genera la mancanza dell’abitudine a qualcosa. E ciò influenza la performance dei singoli e del gruppo».

Sull’incidenza del contesto concorda Renzo Ulivieri, presidente dell’Associazione italiana allenatori di calcio (Aiac), che però richiama altre concause: «Certamente la mancanza di pubblico negli stadi è un fattore, ma ne indicherei almeno altri due. Il primo: siamo a inizio stagione, è normale che ci sia una certa spensieratezza nel giocare. Poi le cose cambiano col prosieguo del campionato, quando il peso della classifica rende tutti più prudenti e fa correggere l’atteggiamento. Secondo: c’è un cambiamento di mentalità che si sta registrando nel nostro calcio e riguarda soprattutto le squadre “piccole”, quelle designate a lottare per la salvezza. Che se la giocano senza paura anche contro le grandi, anche a costo di rischiare il punteggio pesante. La somma di questi elementi dà un calcio ricco di gol. Magari fra qualche settimana sarà diverso».

Il bisogno di un frame

«È sicuramente un calcio più incerto – sostiene Damiano Tommasi, consigliere Figc, presidente dell’Associazione italiana calciatori (Aic) fino allo scorso giugno – e si tratta di un’incertezza che riguarda la stagione intera. Non bisogna dimenticare che si è giocato tanto in un periodo molto ristretto, fra conclusione della stagione passata e inizio dell’attuale. L’assenza di pubblico? Non credo. Penso che l’aumento di gol sia dovuto a una maggiore ricerca del gioco, a un atteggiamento più aperto».

Ma al di là dell’assenza di pubblico e della bulimia da gol, che calcio stiamo vedendo? La domanda ha interrogato Corrado Del Bò, professore associato di Filosofia del diritto alla Statale di Milano e autore insieme a Filippo Santoni De Sio di La partita perfetta. Filosofia del calcio (Utet, 2018): «Per dare una risposta è necessario mettere insieme il finale della scorsa stagione e l’avvio di questa. La parte finale del campionato 2019-20 è stata difficile da seguire, si è giocato troppo in pochi giorni e la qualità del calcio è stata discutibile. Ma la confusione veniva soprattutto da una questione di forma, intesa come riconoscibilità. Nel periodo giugno-agosto ci è stato proposto un ammasso di partite che in me personalmente ha creato stanchezza e disorientamento. A un certo punto mi pareva di procedere a tappe forzate e si trattava di un assurdo, dato che per me il calcio è da sempre una grande passione. Con l’inizio di questa stagione invece le cose sono cambiate. Si gioca con una tempistica regolare, strutturata. E questo mi ha permesso di riflettere sul fatto che anche per quello che riguarda il calcio noi abbiamo bisogno di un frame, di una cornice ben delimitata che ci permetta di inquadrarlo e ordinarlo. Ma c’è un altro fattore che adesso dobbiamo tenere presente e che comunque cambierà le competizioni: quella che chiamerei “la lotteria dei contagi”, che può colpire in modo irregolare ciascuna squadra. Questo fattore avrà un’incidenza pesante».

Rimane l’interrogativo di fondo: tutti questi gol, per una disciplina sportiva storicamente contrassegnata da scarsità di punteggio, sono un bene o un male? «Secondo me troppi gol sono un male – continua Del Bò – ma il punto è che lo scopo del calcio è fare gol anziché evitare di prenderne. Certo, se una partita finisce 5-5 vuol dire che vi sono stati parecchi errori». «Tutti questi gol sono un bene – risponde invece senza indugi Renzo Ulivieri – e fra l’altro sono l’effetto non soltanto del Covid-19 ma anche di un processo di cambiamento delle regole che va avanti ormai da decenni e privilegia l’attacco sulla difesa». Per gli allenatori di cui Ulivieri è presidente si presentano anche speciali difficoltà di gestione, tecnica e psicologica, del gruppo. Come si rimedia? «Si rimedia pensando al gioco. Quando ci si trova sul campo d’allenamento e si sa che il rischio del contagio è sempre lì, giocare a calcio è liberatorio. Secondo me anche per questo motivo stiamo assistendo a così tanti gol».

Le cinque sostituzioni

Tommasi concorda sul fatto che l’aumento delle goleade sia un bene e mette l’accento sulla formula delle cinque sostituzioni nel corso della partita: «Si tratta di una formula che permette di cambiare le partite, specie quando sono impegnate certe squadre più strutturate. Sono stato favorevole alla conferma della regola anche per la stagione 2020-21. Ai tempi in cui ero presidente dell’Aic abbiamo perorato questa soluzione, e allora il Covid-19 non esisteva. Il motivo di questa nostra insistenza sta nei cambiamenti che il calcio ha affrontato negli ultimi anni. Si gioca di più e c’è un più elevato rischio di infortuni. Ovvio che tanto gli allenatori quanto i calciatori non siano abituati, però a me sembra che far entrare tanti giocatori freschi nel corso della partita aumenti il dinamismo e le occasioni da gol. Fra l’altro questa valanga di segnature è conseguenza dell’impegno in parte dell’Ifab (International football association board, l’organismo che custodisce e modifica il regolamento del gioco ndr), che da anni spinge per avere un calcio più offensivo. Mi piacerebbe vedere quanti gol vengono segnati dai nuovi entrati. È stata fatta una statistica sulle gare della Champions League 2019-20 giocate dopo il lockdown e lì veniva fuori un’alta incidenza».

Tornare sul luogo

Ma come la mettiamo con la dimensione estetica? La cornice vuota, i suoni da campetto di periferia, le azioni che anche se sviluppate a massima velocità comunicano un senso di straniamento perché sembrano svilupparsi in un acquario. Che impressioni dà tutto questo? «La mia sensazione – dice Del Bò – è che senza vedere il pubblico e senza sentirlo, e mi riferisco a chi segue la partita da casa, si ha un senso di perdersi qualcosa. Non è solo una questione di essere in un acquario, è che a me sembra proprio di vedere i calciatori al centro di un esperimento da laboratorio. Sarebbe interessante sapere cosa ne pensino loro». Già, saperlo. Purtroppo oggi parlare coi calciatori è sempre più complicato e sul tema specifico pare essere calato un velo di non detto. Magari al pubblico interesserebbe conoscere la loro opinione. Un pubblico che forse, dal canto suo, si sta abituando a questo calcio così, tenuto a distanza d’igiene e profilassi. E se la frattura si stesse consolidando? E se quando tornasse possibile riempire gli spalti ci si accorgesse che il popolo non ne ha più voglia? «Il rischio c’è – afferma Sica – e non va sottovalutato. Aggiungo che su questa strada ci eravamo incamminati prima del Covid. C’erano già meno spettatori negli stadi e dopo questo passaggio credo che ce ne andranno sempre di meno. Certamente nel calcio professionistico, forse non in quello dilettantistico che ha altre logiche e dimensioni».

La pensa in senso opposto Tommasi: «Se devo parlare per quanto mi riguarda, direi di no. La partita vista dal vivo è un’altra cosa. Fra l’altro, anche per le televisioni lo spettacolo dello stadio vuoto non è un grande affare». D’accordo anche Del Bò: «Il richiamo dello stadio è troppo forte, quando sarà possibile tornarci gli spalti si ripopoleranno. Il calcio televisivo è un surrogato e il surrogato non può essere l’unica soluzione».

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